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 2014  maggio 24 Sabato calendario

IL TORERO CHE VISSE 27 VOLTE


Juan José Padilla detto El ciclón de Jerez, discepolo del defunto maestro Rafael Ortega detto El tesoro de la Isla, era già stato incornato ventisei volte, nell’arena. Nel luglio 2001, sulla terra chiara della plaza de toros di Pamplona, un animale enorme di nome Sureño gli aveva addirittura infilzato il collo fratturandogli la terza e la quarta vertebra, e per un soffio l’esofago non era stato sfondato, salvo solo grazie all’intervento dei medici dell’Hospital Virgen del Camino della città basca. Un’altra volta, un toro di nome Lenguto l’aveva gettato in aria e poi fatto cadere a terra come fa il gatto con l’insetto, strappandogli tutti i vestiti: Padilla ferito s’era rialzato, era sceso nello spogliatoio a farsi prestare un paio di jeans, e infine era tornato a dare la stoccata mortale vestito così, da discoteca, praticamente. A quel punto, a un passo dai quarant’anni (è nato a Jerez de la Frontera il 23 maggio del 1973); ovvio che El ciclón pensava d’arrivarci tranquillo al prossimo 18 giugno, ventesimo anniversario della sua alternativa, come si chiama in ambiente taurino il rito di passaggio da novizio a matador. Ma visto che ogni uomo coltiva nell’animo il vizio che lo farà cadere, quello di Padilla è sempre stato lo stesso: affrontare i tori che tutti gli altri compañeros evitano come il demonio, quelli allevati cioè dalla famiglia Miura, a Zahariche, quaranta chilometri da Siviglia. I tori di Picasso. Neri e triangolari, enormi di torace e veloci di bacino. Quelli che Ferruccio Lamborghini aveva scelto per il logo sulle sue automobili, l’unico animale sulla terra che gli pareva più potente del cavallino di Enzo Ferrari. Una potenza che diventa distruzione il 7 ottobre 2011, davanti a diecimila persone, nell’arena La Misericordia di Saragozza. Padilla entra in scena col suo completo beffardo, un traje de luces rosa con inserti luccicanti in oro, e le stesse basette enormi che porta pure oggi, sulla sua faccia deformata. Nel giorno della Fiesta del Pilar il toro che gli tocca in battaglia si chiama Marqués, un miura di 508 chili col muso allungato e il numero “8” marchiato a fuoco sul fianco destro, che dopo pochi minuti di rueda si ritrova già con quattro banderillas bianche e azzurre piantate nella schiena. È stato Padilla a conficcarle, facendo fluire il sangue scuro in una colata color barbabietola, col suo stile inconfondibile: piazzato in mezzo all’arena coi punteruoli in mano, le urla rauche in andaluso per incitare la bestia, poi i saltelli irridenti e di autocarica simili a quelli di un atleta che sta per lanciarsi contro la sbarra del salto in alto, e quindi la corsa e zaaac, l’uncino nella carne. La folla applaude. Padilla si specchia nel suo fulgore e inciampa. Marqués sa che un uomo a terra è più indifeso di un verme che striscia e allora gli pianta una cornata nella guancia sinistra, che s’infila sotto lo zigomo ed esce dall’occhio, in un gesto fulmineo da killer, da tagliagole rapace. Padilla si alza in piedi tenendosi tra le mani il bulbo oculare, mezza faccia, tutta quanta la mandibola. Il medico dell’arena, Carlos Val-Carreres, guarda la ferita e l’unica diagnosi che riesce a formulare è questa: escandalosa, tanto che due anni dopo verrà premiato con la Piuma d’Oro dalla società taurina di Aragona per l’efficacia delle prime cure prestate al torero. Sulla terra rossa rimane la scarpa nera del Ciclón, col suo fiocchetto ancora ben allacciato. A Marqés nessuno concede l’indulto, e viene ammazzato e poi cotto alla griglia, come da usanza. Padilla invece finisce sotto i ferri, cinque ore di operazione per rimettergli insieme la faccia, e un grande punto interrogativo sul futuro.
Poche settimane dopo l’intervento, accompagnato dalla moglie Lidia che spinge la sedia a rotelle, rilascia un’intervista televisiva in cui parla di voluntad indomable a tornare sull’arena: «Un toro mi ha spedito all’inferno» dice, articolando male le parole, con solo metà della bocca che risponde agli impulsi del cervello. «E solo un toro potrà tirarmene fuori». Inizia la riabilitazione, la logopedia, gli interventi di ricostruzione plastica. E incredibilmente, vestito con una casacca ricamata di vistose foglie verdi, simbolo della vita che rinasce sempre, il 4 marzo del 2012 fa il suo ritorno alla Feria de toros de Olivenza.
Il padre lo vede entrare alle cinque in punto della sera e sviene, vinto dalla tensione e l’emozione. La figlia Paloma lo applaude dalle tribune. Il figlio Martin invece, che di tori non ne vuole sapere e va pazzo per il Real Madrid e Benzema, gli manda un bacio distratto.
Lui sorride sghembo, col muso pieno di lastre di titanio, il senso della profondità visiva compromesso, e comincia una mattanza che da quel giorno non ha più avuto fine. L’anno scorso, reclamato come un dio in tutte le piazze di Spagna, Francia, Portogallo e Sud America, è arrivato primo nell’Escalafón Taurino, la classifica che premia i toreri che hanno calcato più volte la scena. Padilla nel 2013 l’ha fatto 66 volte, con centotrentadue tori uccisi, un cachet minimo di 18 mila euro a corrida, decine di orecchie e code tagliate come trofei, e infiniti giri d’onore (la vuelta al ruedo) pretesi dallo sventolio di fazzoletti bianchi della folla. Pochi giorni fa, a Siviglia, ha mostrato al mondo che il suo modo di toreare s’è fatto ancor più sfacciato, tanto che il giornale El Mundo l’ha incoronato “Héroe popular”. Ora gli piace aspettare il miura inginocchiato a terra, col drappo rosso a coprirgli il corpo come un lenzuolo, che allontana da sé solo pochi istanti prima che la furia lo travolga.
Gli olé squarciavano il sole di Spagna mentre El pirata, come lo chiamano ora per via della benda nera sull’occhio, guarda la morte in faccia. Ne vede solo metà, forse è per questo che fa meno paura. «E poi c’è Cristo, che è sempre con me», dice il matador. È da lui che ha imparato la frase che è diventato il suo mantra: «El sufrimiento es parte de la gloria».