Paolo Mieli, Corriere della Sera 28/5/2014, 28 maggio 2014
IL LEGAME TRA EUROPA E ASIA CHE FU SPEZZATO DA LUTERO
Da alcuni anni gli storici si sono convinti che sia un errore studiare il passato considerando l’Europa come il centro del mondo, nonché la storia di tutte le altre aree geografiche alla stregua di un’appendice di quella del nostro continente. Ma nei fatti, in un modo o nell’altro, fino a poco tempo fa non sono riusciti a produrre una storiografia non eurocentrica. In qualche caso hanno manifestato una maggiore attenzione al resto del mondo, ma pur sempre riconducendo il tutto alle leggi ferree dell’eurocentrismo. Adesso un professore indiano, Sanjay Subrahmanyam, formatosi nel suo Paese con una tesi sulla storia del mercato e dei traffici commerciali nell’India meridionale e nel golfo del Bengala, chiamato poi a insegnare a Parigi, Oxford e a Los Angeles, è riuscito a scrivere un vero trattato di storia globale (Mondi connessi. La storia oltre l’eurocentrismo, secoli XVI-XVIII , edito da Carocci) in cui l’Europa ha un ruolo adeguato ma senza farla più da padrona. La «storia globale», scrive nell’introduzione Giuseppe Marcocci, «non va intesa come una scelta di campo, ma come una possibilità in più a disposizione degli storici che possono ricavarne nuove chiavi di lettura e interpretazioni interrogando il passato in forma diversa, proponendo rapporti inesplorati tra episodi e fenomeni che si sono dispiegati su una scala maggiore di quella locale o regionale e, soprattutto, cercando risposte generali a partire dallo studio di casi particolari».
Punto d’avvio di questo genere di ricerche è il Marc Bloch che alla fine degli anni Venti scrisse Per una storia comparata delle società europee (Einaudi). E, dopo di lui, tutti quegli autori che hanno successivamente allargato l’ambito della «storia comparata». Tra i quali Victor Lieberman, che ha dedicato ampi studi ai parallelismi fra regioni costiere e interne sia dell’Asia che dell’Europa corrispondenti a moderni Stati nazionali (Birmania, Siam, Vietnam, Francia, Russia, Giappone). Ma proprio in polemica con Lieberman, Subrahmanyam sferra «un decisivo attacco alla storia comparata tradizionale, giudicata troppo astratta e debitrice del paradigma dello Stato nazionale, esortando piuttosto allo studio di interazioni e integrazioni fra località diverse e distanti collegate da un filo di storie connesse» (Marcocci). Il suo è un invito a mettere da parte una comparazione storica tra oggetti assunti come nettamente separati tra loro, per «osservare fenomeni che mettono in relazione storie superando le barriere del tradizionale modo di pensare… Può avere a che fare con la globalizzazione, ma non necessariamente». All’«uso corrente» di «riservare quasi esclusivamente il nome di storia comparata al confronto tra fenomeni che si sono svolti da una parte e dall’altra di una frontiera di Stato o di nazione», Subrahmanyam oppone «un’altra applicazione del procedimento di comparazione: studiare parallelamente società al tempo stesso vicine e contemporanee, influenzate senza interruzione le une dalle altre, soggette nel loro sviluppo, proprio in ragione della loro vicinanza e del loro sincronismo, all’azione delle stesse grandi cause, e risalenti, almeno parzialmente, a una comune origine», sottolineando come un simile approccio consenta di «discernere le influenze esercitate reciprocamente». E le «correnti di prestiti finora messe in luce in modo imperfetto». Nonché di «mantenere la percezione delle differenze, che siano originarie o che siano il risultato di percorsi divergenti, tratto da uno stesso punto di partenza».
Ne viene fuori una storia del continente eurasiatico, dalla morte di Tamerlano (1405) in poi, nella quale è esplicito il tentativo di «slegare la nozione di “modernità” da una precisa traiettoria europea», dove i viaggi, le scoperte, un «nuovo senso dei confini del mondo abitati» e financo la tratta degli schiavi vengono individuati come caratteristiche comuni dell’intera area geografica.
Grande è il debito di Subrahmanyam con Serge Gruzinski, il quale prima di lui aveva messo in luce quanto il millenarismo del Cinquecento «avesse favorito l’esistenza di una comune atmosfera di attese, dalla corte del re Emanuele I del Portogallo a quella dell’imperatore Mughal Akbar, passando per il Marocco saadita, il grande sultano ottomano Süleyman il magnifico, la Persia safavide degli shah. Con l’aggiunta delle contaminazioni tra credenze islamiche e hindu attestate in alcune opere indiane». Gruzinski evocava l’immagine dello «storico elettricista», «capace di ristabilire le connessioni continentali e intercontinentali che le storiografie nazionali si sono a lungo ingegnate di scollegare o celare, rendendo impermeabili le loro frontiere», individuando l’avvio della «mondializzazione» nella proiezione planetaria della monarchia cattolica nel corso dell’unione dinastica tra Spagna e Portogallo (1580-1640). Modello d’analisi che, secondo Marcocci, «poggia sull’idea di un impero globale capace di essere un contenitore unitario per una simultaneità di “storie multiple”, rese possibili dalla straordinaria mobilità e mescolanza di uomini, oggetti e culture che caratterizzò il mondo iberico in età moderna».
Anche Jane Burbank e Frederick Cooper hanno interpretato gli imperi «come entità con una struttura plurale e in costante evoluzione, al cui interno si registravano interazioni fra storie locali e storie sovraregionali, ma anche forme di integrazione fra componenti culturali e territoriali differenti, riproducendo su scala minore i processi della storia globale». Così, nota Marcocci, «si arriva a mettere in discussione un’idea di storia del mondo moderno come mero predominio dell’Occidente e come semplice trasmissione di conoscenze, tecniche e stili di vita dall’Europa al resto del pianeta, per una via alternativa agli studi post coloniali che insistono, non senza rigidità, sul portato epistemologico della denuncia delle profonde permanenze del discorso coloniale e della relazione colonizzatore/colonizzato in ambito scientifico». Prima di ora si tendeva a negare che esistesse una coscienza storica dell’India meridionale prima della conquista inglese nei decenni finali del Settecento. Non che mancasse una storia dei secoli precedenti, ovviamente. Ma nessuno in loco l’avrebbe mai percepita, appunto, come storia. La storiografia era stato un «prodotto d’importazione» e da allora — fine Settecento, inizio Ottocento — anche l’India aveva imparato a raccontare la propria storia.
Subrahmanyam dimostra invece che «ogni comunità scrive storia nel registro discorsivo dominante nella sua pratica letteraria». Sicché è da respingere o comunque da considerare non valida in generale l’idea diffusa in Europa, secondo cui «la storiografia corrisponderebbe a uno specifico genere letterario, scritto in prosa e con regole proprie». E con uno straordinario lavoro di connessione tra racconti in versi e non delle diverse culture indiane (telugu, tamil, sanscrito, marathi e persiano) viene fuori un affresco storico dell’India precoloniale tra Cinque e Settecento davvero affascinante. Ad un tempo però Subrahmanyam si sente in dovere di combattere gli studiosi influenzati da Ashis Nandy con la loro «visione idealizzata di una cultura incorrotta e fondamentalmente astorica» che avrebbe caratterizzato l’India prima della dominazione inglese, la felicità di un tempo mitico cui far ritorno, liberandosi delle maledizioni dell’incontro con l’Occidente. Anch’essa, rappresentata da storici come Ranajit Guha, Gyan Prakash, Dipesh Chakrabarty, sarebbe subalterna a quella occidentale. Tali studiosi «sostengono», secondo l’autore di Mondi connessi , «pur con le loro differenze», che il senso storico sia un’importazione post-illuminista degli europei e relegano in un passato mitico i secoli precoloniali dell’India, ma poi non fanno nulla per riscattarli da tale condizione, poiché il loro studio «dal basso» delle società coloniali o post-coloniali porta a interessarsi del non-Occidente solo in rapporto all’Occidente, ossia a lavorare sempre su epoche posteriori all’Ottocento. Così, proprio mentre tentano di «provincializzare l’Europa», per stare al titolo di un libro di Chakrabarty, ne diventano nuovamente prigionieri. E invece quella storia dell’India precedente al 1800 va ricostruita e studiata a sé, provando a vedere se per caso, assieme ad altre storie della stessa epoca, non irradiò un fascio di luce che illuminò l’Europa. Ciò che effettivamente accadde. Ed è questa la scoperta di Subrahmanyam.
Tutto ha origine con l’Orda d’oro, cioè l’invasione mongola di un nipote di Gengis Khan che a metà del Duecento riuscì a conquistare metà dell’Europa e ad arrivare quasi fino a Vienna. Bulgaria, Ungheria, Polonia e i principati russi tutti (eccezion fatta per quello di Novgorod governato da Aleksandr Nevskij) confluirono in un regno turco-m0ngolo: un evento che ebbe l’effetto di mandare in pezzi le barriere tra Occidente e Oriente. Poi, a un certo punto, questo regno andò a sua volta in frantumi, ma ormai il mondo conosciuto era, per così dire, globalizzato e, a partire dal Cinquecento, si disponeva, sulla spinta dei mercati, a eliminare barriere e frontiere.
Furono la Riforma protestante, le guerre di religione e poi la lunga stagione dei nazionalismi a ricacciare indietro questo processo. O, meglio, a far prendere all’Occidente un’altra strada, quella che avrebbe avuto il proprio baricentro nell’Oceano Atlantico. Ma nel 1513, quando il governatore portoghese dell’India, Afonso de Albuquerque, penetrò con la sua flotta nel Mar Rosso, parve che le cose sarebbero andate in modo diverso. Al largo della costa occidentale dello Yemen, vicino all’isola di Kamaran, Albuquerque sostenne di aver ricevuto un segnale dal cielo che lo confermava nel perseguimento dei suoi obiettivi: attaccare e distruggere le città sante musulmane della Mecca e Medina; stringere l’alleanza con il leggendario Prete Gianni, sovrano dell’Etiopia; cercare conferma al destino del Portogallo di creare un impero universale esteso fino all’Oceano Indiano. Circa trent’anni dopo, nel 1540, un emissario veneziano, Michele Membrè, poté constatare che idee del genere erano coltivate nell’Iran safavide alla corte itinerante di Shah Tahmasp. Tahmasp prendeva molto sul serio credenze sciite sull’imminente ritorno dell’imam Mahdi, «colui che era stato atteso a lungo e che avrebbe annunciato la fine dei tempi e il giorno del giudizio». Nel corso di una campagna in Afghanistan alla metà del 1581 — cioè nell’anno 989 del calendario dell’Egira, seguito dalla maggior parte dei musulmani del mondo — il sovrano Mughal Jalal al-Din Muhammad Akbar prese a interrogare il gesuita catalano Antonio Monserrate (in missione presso la sua corte) su questioni relative al millennio, ossia sul «giudizio finale», se Cristo avrebbe dovuto essere il giudice e quando avrebbe dovuto verificarsi.
Ecco cosa sono le «storie connesse», una «via per collegare tra loro fenomeni del passato che troppo spesso la storiografia ha tenuto separati in modo artificiale». Stiamo parlando dei grandi fenomeni «che unificarono il pianeta nella prima età moderna e permisero a chi viveva nelle diverse parti del mondo di pensare già allora, seppure in modo differenziato, l’esistenza di processi su una scala veramente globale». Fenomeni — già studiati — che fanno riferimento ai microbi che si sparsero per tutta l’Eurasia a ridosso dell’invasione mongola (1236) e in seguito provocarono epidemie di peste sia in Europa che in Asia. O all’argento che, dopo la scoperta delle apparentemente inesauribili vene boliviane di Potosì, provocò, dalla seconda metà del Cinquecento, un vasto processo inflattivo che mise in ginocchio un’intera fascia continentale che andava dalla Spagna al Giappone. E anche all’entrata in scena, dopo la scoperta delle Americhe, di piante e animali che offrirono grandi opportunità di espansione agricola e di allevamento del bestiame, ma causarono altresì il crollo di stili di vita che erano rimasti più o meno gli stessi per migliaia di anni.
In questo contesto, ciò di cui si occupa nello specifico Subrahmanyam sono i movimenti politici millenaristici già messi in evidenza alla fine degli anni Cinquanta da Norman Cohn nel saggio I fanatici dell’Apocalisse (Edizioni di Comunità). «Tra la fine dell’XI secolo e la prima metà del XVI», scriveva Cohn, «in Europa avvenne ripetutamente che il desiderio dei poveri di migliorare le proprie condizioni materiali di vita fosse pervaso da fantasie di un nuovo paradiso in terra». L’autore prende come bandolo della matassa il millenarismo musulmano, ricordando che il 1591 dell’era cristiana corrispondeva all’anno Mille dell’egira: il decimo secolo per i musulmani era iniziato nel 1495 (901 dell’egira) e i cento anni che seguirono furono vissuti dal mondo islamico «con un’intensità di aspirazioni chiliastiche pari, se non superiore, a quella che aveva caratterizzato l’ultima fase del millennio cristiano». Sulla scia degli studi di Cornell Fleischer e di Richard Kagan, Subrahmanyam individua nella Spagna di Carlo V (regnante dal 1519 al 1556) e di Filippo II (sul trono dal 1556 al 1598) il centro propulsore di una rinnovata onda di millenarismo cristiano che riuscì a intercettare quella islamica. Ma «se gli storici dell’Europa medievale hanno riservato grande attenzione al valore di ogni sfumatura relativa al millennio, gli studiosi del mondo islamico sono rimasti molto più indietro». E cosa c’è da mettere meglio a fuoco? Verso l’anno Mille dell’Egira, le attese nelle aree di influenza musulmana non erano tutte apocalittiche allo stesso modo. Quelle più ottimistiche «ruotavano intorno a un possibile riordinamento del mondo conosciuto, per intercessione di un rinnovatore (mujaddid )». L’idea del rinnovatore «corse parallela, pur senza rimpiazzarla, a un’altra idea che aveva radici profonde nella storia islamica, quella dell’imam Mahdi — il Nascosto, o l’Atteso — che si sarebbe manifestato per promuovere una radicale riforma del mondo». E una volta che tutta l’umanità si fosse convertita all’Islam per l’intervento del Mahdi, sarebbe giunto il giorno del giudizio.
Come hanno mostrato Barbara Flemming e il già citato Cornell Fleischer, anche la più sunnita delle formazioni statali — l’Impero ottomano — ebbe una relazione prolungata con il mahadismo nei decenni centrali del Cinquecento, soprattutto all’epoca del sultano Yavuz Selim (1512-1520) e di suo figlio il sultano Süleyman (1520-1566). Ne è venuto fuori un curioso effetto di accoppiamento tra Süleyman e Carlo V che «appaiono, in raffigurazioni dell’epoca, come i due opposti di un gioco a somma zero». Due poli magnetici che «sembrano aver creato una sorta di campo di forza millenaristico nel Mediterraneo tra anni Venti e anni Trenta del Cinquecento, al cui interno altri attori recitarono una parte minore». Ma nella seconda metà del Cinquecento e nella prima del Seicento una parte decisiva la giocò in Iran lo Shah ‘Abbas I, a tal punto calato nell’atmosfera millenaristica che quando l’astrologo di corte gli predisse (nel 1593) che l’imminente congiunzione di Saturno e Giove avrebbe provocato la morte del sovrano regnante, non esitò ad abdicare a favore di un suo nemico. Ma solo per qualche ora e tenendo strette le leve del potere. Dopodiché, trascorsi i giorni funesti secondo gli astri, riprese il trono, fece uccidere l’uomo a vantaggio del quale aveva abdicato (in tal modo la profezia si era avverata) e avviò una lunga stagione di esecuzioni capitali.
Il millenarismo fu nel Cinquecento quello che internet è stato ai tempi nostri. Lungo le direttrici di profezie palingenetiche e catastrofiche fu riproposta in varie chiavi la leggenda di Alessandro Magno (per gli islamici Sikandar) il primo che aveva perseguito un imponente progetto di mondializzazione, basato sull’unificazione del mondo greco e di quello persiano. Sikandar adesso è raffigurato non solo come conquistatore, ma anche come veggente e gli sono attribuiti vari trattati di astrologia. Il suo impegno è quello di proteggere la civiltà euroasiatica contro la barbarie, talché erige un muro di rame ai confini del mondo per difendere la civiltà stessa dalle depredazioni di Gog e Magog (un popolo asiatico e selvaggio, presente nella tradizione biblica, cristiana e musulmana). Sempre nel Cinquecento anche l’India settentrionale, oltre all’Impero ottomano, entra in contatto con le attese millenaristiche islamiche.
L’India, alla fine del decimo secolo dell’Egira, fu segnata dal potente movimento millenaristico dei mahdawi, riconducibile alla figura carismatica di Sayyd Muhammad Jaunpuri (1443-1505) che, dopo essere stato costretto ad abbandonare la città di Jaunpur, divenne asceta e disse di essere il Mahdi. Poi, nei tardi anni Quaranta (del Cinquecento), fu la volta dello scontro, sempre in India, tra un erede di Sayyd Muhammad Jaunpuri, Shaikh «Ala», il sultano e i membri del clero ortodosso. Alcune fonti riportano che Shaikh «Ala», invitato a corte per chiarire le sue posizioni teologiche (si batteva per una forma pura di Islam) sconfisse i religiosi che facevano capo al sultano e rimproverò al sultano stesso l’eccessivo sfarzo esibito. Gli si chiese di dire che non pretendeva di essere il messia e, quando rifiutò di farlo, fu punito con la frusta. Ma la corte si spaventò per una concomitante epidemia di peste e decise di procedere ulteriormente contro il profeta che aveva adesso un vasto seguito: lo fece uccidere, calpestare dagli elefanti e gli rifiutò la sepoltura.
Questa «integrazione epistemologica di tradizioni più antiche in una più nuova appare come un tratto profondo delle ideologie millenaristiche legate all’espansione europea nel Cinquecento… Il millenarismo portoghese condivise certamente caratteri e temi con un’infinità di casi nell’area geografica che va da Istanbul all’India». Tutto questo «si combinò con le attese millenaristiche degli ebrei e produsse talora una miscela potente e inebriante, quale si coglie negli scritti del francescano spagnolo Alonso de Espina (ritenuto, probabilmente a torto, un converso) il quale affermava che vi fossero ebrei nei Carpazi, tra i palazzi di Gog e Magog, in attesa dell’Anticristo». La casa regnante portoghese degli Avis aveva fatto un uso del simbolismo millenaristico sin dall’inizio della sua parabola dinastica, ossia dalla guerra tra portoghesi e castigliani nel 1383-85, che portò all’ascesa al trono di Giovanni I (1385-1433). Questo re, battezzato dal popolo «il messia di Lisbona», «manipolò con abilità una situazione di crisi provocata dalle tensioni e dagli sforzi di una società che a fatica si stava riprendendo da una pesante mortalità causata dalla peste». I suoi successori, Emanuele I e Giovanni II, nel Quattrocento si misero sulla sua scia. E quando alla fine di quel secolo Vasco da Gama, tornando da Calicut (1499), raccontò di aver constatato in India una vasta inclinazione al cristianesimo, partì (1500) una spedizione guidata da Pedro Alvares Cabral con una lettera per il sovrano di Calicut piena di oscuri riferimenti escatologici. E nonostante gli sforzi di Giovanni III di ricondurre il tutto a una dimensione più terrena e politica, con il re Sebastiano, ucciso nel 1578 nel corso di una spedizione in Africa, il vento del millenarismo riprese a soffiare con forza.
Sembrò allora che per effetto di questo vento il mondo sarebbe stato guidato dall’Oriente, con l’Europa in una posizione gregaria. Poi, per effetto delle guerre di religione (e non solo) le cose andarono diversamente. Ma alcuni secoli di rigogliosità politico-culturale avevano gettato semi che in qualche modo hanno germogliato in anni recenti. «Non porta molto lontano la descrizione dei movimenti millenaristici del passato sempre come portatori degli interessi di oppressi che avrebbero impiegato una risorsa all’apparenza irrazionale per fermare la marcia altrimenti inarrestabile dello Stato razionalizzatore», avverte Subrahmanyam. Però ci sono tutti gli elementi per riconsiderare tutta questa storia sotto una luce nuova.