Terry Marocco, Panorama 22/5/2014, 22 maggio 2014
QUESTO MINISTRO È UN PEZZO DA MUSEO
[Dario Franceschini]
Sembrava una cronaca marziana alla Ennio Flaiano: il Colosseo chiuso «la notte dei musei» perché non si riuscivano a trovare cinque custodi disponibili. Alla fine si è arrivati a un accordo con i sindacati e il monumento è rimasto aperto per la gioia del ministro Dario Franceschini che twittava e mandava selfie, soddisfatto. Ma una notte non basta a rallegrare il tristo panorama della nostra cultura. Dall’ultima classifica sui musei più visitati, stilata da Il giornale dell’Arte, emerge che nel 2013 i primi 100 del mondo hanno totalizzato 173,8 milioni d’ingressi, mentre i primi 100 italiani solo 23,8 contro i 25,5 dell’anno precedente. Tra i più sofferenti la Reggia di Caserta e la Pinacoteca di Brera. Il Louvre è primo al mondo per incassi, in Italia la star è la Galleria degli Uffizi, che però è solo al 26esimo posto nella classifica mondiale. Non proprio una «pole position».
Il ministro parla di petrolio del Paese. «Un’espressione infelice» osserva Tomaso Montanari, storico dell’arte e docente alla Federico II di Napoli. «Prima di pensare al petrolio, la cosa che dovrebbe fare è cambiare radicalmente il suo quartier generale». Ma per ora non ha toccato nulla. Ha fatto capo di gabinetto il suo fedelissimo Giampaolo D’Andrea, ma per il resto tutto è rimasto com’era, compreso Salvo Nastasi, l’uomo forte del ministero, genero di Gianni Minoli e direttore generale: è lui il vero ministro ombra. «Tutto nella conservazione più bieca. Una rete di poteri che andrebbe smantellata. Ci aveva provato Massimo Bray, ma non ha avuto tempo. Franceschini mi pare il perfetto Dc: dà ragione a tutti e non sceglie. Non è più possibile vivacchiare con dichiarazioni ecumeniche» attacca Montanari.
Eccole. «Dobbiamo aprire ai privati», cosa che sembra facile in tutto il mondo, ma da noi è da sempre impossibile. «Il ministero ha mandato una circolare sulle sponsorizzazioni: 46 pagine. Non si riesce a finire di leggerla, e lo sponsor è già scappato» spiega Anna Coliva, direttore della Galleria Borghese di Roma. Che incalza: «Ma perché un ministero che si dice povero non comincia a chiudere una delle due sedi? Restituisca il Collegio romano alla sua antica funzione di biblioteca e usi quella di San Michele a Ripa. Elimini Arcus, società che serve solo a un ignobile passaggio di denaro. E abolisca i direttori regionali, creature di Walter Veltroni: allungano solo la catena di comando».
Lo scontento è forte anche nelle sovrintendenze, dove il personale è scarso e il turnover bloccato. «Siamo costantemente sotto ricatto dei sindacati, così non si può organizzare nulla» dice Luigi Ficacci, soprintendente a Bologna. I riflettori sono sempre sugli stessi problemi e tutte le prime interviste del ministro parlano di Pompei, ma i malati sono molti: a Careggi, la residenza dove nacque e morì Lorenzo il Magnifico è in decadenza. Sempre a Firenze la soprintendente Cristina Acidini racconta: «Abbiamo cinque Ville medicee, luoghi unici, costosi da mantenere: vorremmo poterle valorizzare con un programma, trasporti e comunicazione adeguata». La meravigliosa Villa Adriana a Tivoli è più difficile da raggiungere che i templi nella giungla birmana. E il Castello di Rivoli, a 20 minuti da Torino, non nella foresta amazzonica, è diventato una cattedrale nel deserto. Fu il primo museo di arte contemporanea italiana ad avere fama internazionale. Oggi sotto la direzione di Gianni Minoli (ancora lui) strazia il cuore, dice Angela Vettese, critica d’arte e assessore alla Cultura di Venezia: «Abbandonato dal punto di vista del budget, fuori dal mondo. Ai tempi di Ida Gianelli aveva un’allure internazionale, ma poco è stato fatto e l’ha persa».
Non abbiamo credibilità: le grandi mostre non vengono volentieri in Italia, siamo considerati inaffidabili e non abbiamo una politica degli scambi. «Per la mostra a Palazzo Ducale di Manet abbiamo pagato per avere l’Olympia. Forse si poteva ottenere il quadro scambiandolo con altre opere». È lo stesso pensiero di Achille Bonito Oliva: «I beni non devono essere conservati, come nella tradizione cattocomunista. Va progettato il passato: le opere vanno prestate in leasing agli stranieri, o in cambio di restauri. Bisogna imparare a fare con quello che si ha, a usare i nostri enormi depositi».
Enorme e senza un chiaro destino è il Maxxi di Roma, un carrozzone disegnato dall’archistar Zaha Hadid e presieduto da Giovanna Melandri, di cui non è chiaro il destino. Un museo al quale tre direttori papabili hanno detto no, non ci volevano proprio venire. Solo di manutenzione avrebbe bisogno di 15 milioni all’anno, e fa fatica a produrre una mostra.
Tutti i nostri musei arrancano, pochi hanno il wifi, le biglietterie online, le app per attirare il nuovo turismo (ormai ci vogliono quelle in cinese), le audioguide ben fatte. Le mostre sono al ribasso, gestite da società private che dettano legge. Dal Louvre al Prado, nessuno si sognerebbe di appaltarle. Il primo maggio gli Uffizi erano chiusi, ma il ministro ha ribattuto: «Era chiuso anche il Louvre». Peccato che a Londra il British Museum fosse apertissimo, pieno più di un concerto rock, con una mostra sui Vichinghi sold out da mesi. «Non sappiamo far dialogare i diversi periodi: il Louvre ha portato l’arte contemporanea nelle sale dell’arte antica. Abbiamo una giovane generazione che ancora attende di poter entrare a lavorare in questi templi intoccabili della cultura. Il museo è un intellettuale pubblico, ma non lo abbiamo ancora capito» riflette Andrea Villani, direttore del Madre di Napoli.
L’hanno capito gli inglesi. Frederick Wiseman, il più grande documentarista vivente, ha potuto girare uno strepitoso film sulla National Gallery, dove i capolavori sembrano attori reali e la galleria è ripresa come un’entità viva. Sarebbe consigliabile al ministro Franceschini una visione. Attenta e ripetuta.