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 2014  maggio 24 Sabato calendario

PIACERE, OLGA! E IO LA SEGUII A MOSCA


[Sandrone Dazieri]

SI ENTRA NELLA CASA DI SANDRONE DAZIERI come in un paese delle meraviglie. Fuori c’è l’antiestetica periferia milanese, un solido manifesto della vita agra, e oltre il cancello ecco invece un vialetto di casette squillanti: azzurro indaco, giallo acceso, verde smeraldo. «Era un ex magazzino» dice il proprietario che si aggira scalzo tra un’amaca gigantesca e una cucina a vista, dove il porta-coltelli ha la forma di un corpo umano in plastica rossa, drammaticamente trafitto dalle lame. Ironico indizio che il territorio appartiene a un uomo che per mestiere inventa delitti di successo: autore di noir (i romanzi con l’alter ego che si chiama come lui, Sandrone Dazieri, detto il Gorilla), sceneggiatore di serie tv (tra le altre, Squadra antimafia), consulente oggi per la Fabbri, ieri per la Mondadori, dove è stato direttore dei Gialli e della divisione ragazzi.
Sandrone viene da Sandro, ed è un residuo rimasto addosso dagli anni in cui faceva politica nel centro sociale Leoncavallo. Un nome che gli si addice. Non perché il proprietario sia particolarmente imponente, ma per qualcosa di energetico, impulsivo che gli taglia intorno l’aria, come chi scaccia le ombre scegliendo continuamente di agire anziché stando fermo. E in questo i due protagonisti del suo nuovo thriller Uccidi il padre (Mondadori), che vola a ritmo serratissimo, gli somigliano: «Il nome della mia poliziotta, Colomba, così aereo, l’ho visto su una tomba e me ne sono innamorato subito. Viceversa, Dante Torre, il suo consulente, allude a qualcosa di chiuso, a una costrizione subìta… Sono due reduci, feriti dalla vita. Ma come canta Leonard Cohen, attraverso la loro frattura interiore passa la luce del mondo: sono coraggiosi, ci provano. Amo chi si mette in gioco, e magari fallisce, ma tenta di spostare il suo limite. E in fondo, il perdente è proprio chi sceglie il rischio, forse spinto dal sentirsi sempre fuori posto. Che è poi come mi sento io».

NON ESSERE MAI A CASA, mai davvero a proprio agio, sembra la chiave di una vita scandita non da una, ma da tante svolte, cercando una famiglia solo per poterla poi abbandonare. A cominciare dalla prima. «A 14 anni sono andato via da Cremona. Volevo fare lo scrittore. Ero bravo in italiano, avevo i miei quadernetti su cui buttavo giù delle frasi, ma sentivo su di me l’occhio di mia madre, infermiera e divoratrice di gialli. Mi pesava la sua attesa della mia bravura. Non avevo modelli maschili: mio padre lo ricordo in vestaglia, già molto malato. A quattro anni mi mandarono in campagna mentre stava morendo. Al ritorno, tutti tristi, mamma, sorella, nonna. Sono cresciuto sentendomi responsabile della loro infelicità: che faccio per vederle sorridere? Il mio calcolo di bambino era questo».
Ci sono tanti modi per fuggire, un adolescente trova il suo nella scuola. «Con grande sgomento di tutti scelsi l’Istituto alberghiero di San Pellegrino Terme. Volevo viaggiare facendo il cuoco e accumulare esperienze per i miei futuri romanzi. Ma all’epoca non c’era la moda degli chef: lì finivano i ragazzi che non riuscivano a leggere e scrivere, e se avevi un libro in mano ti picchiavano pensando che fossi omosessuale. Pur di andarmene il biennio finale lo frequentai a Milano, facendo il pendolare in treno».
Il treno non serve semplicemente a spostarsi: è lo strumento che meglio entra in risonanza con la propria eco, in movimento perpetuo senza appartenere a nessun luogo. «Nell’82, mi sono iscritto a Scienze politiche e per un anno e mezzo ho vissuto alla stazione centrale. Dormivo sui vagoni. Alle cinque finalmente si accendeva il riscaldamento e il calore saliva dalle griglie. Alle sei partivo, arrivavo a Cremona, mi cambiavo e via di nuovo verso Milano».
Partire e tornare, iniziare qualcosa e non finirla: anche l’amore ha l’andamento incompiuto della stessa insoddisfazione. «Le relazioni non duravano a lungo. Se la fanciulla che stava con me aveva qualche problema poteva essere solo il segno del mio fallimento. Perciò il tentativo di renderla felice diventava ossessivo: fai così e cosà. Ero insopportabile. Una di queste volte, la ragazza del momento mi molla e se ne va a Parigi con un altro. Era carina, rossa di capelli. E io molto innamorato. Perciò, mi ubriaco, seguo qualcuno da qualche parte, infine crollo su un materasso. Mi sveglia la polizia che sta sgomberando: ero finito in un appartamento occupato. Quelli del Leoncavallo li ho conosciuti così».

DURA SETTE ANNI ed è un periodo talmente intenso che tutto il resto si annulla. «Avevo lasciato l’università, non andavo al cinema, il teatro non sapevo cos’era. Leggevo tantissimo ma sempre vivendo in comunità. Mi occupavo di concerti, stavo alla cassa, facevo il facchino in una cooperativa legata al centro. E manifestazioni, cortei, occupazioni, una vera educazione sentimentale, ma alla fine, ripetitiva. Durante un’assemblea ho detto: ciao, me ne vado. Erano tutti allibiti».
Questa volta però non sarà l’ennesimo tassello da aggiungere alla collezione. Perché Dazieri si misura finalmente con ciò che voleva fare da bambino: scrivere, inventare storie, vedere i personaggi, sapere che dicono e pensano, riversare nella loro vicenda gli umori della propria. Esce Attenti al Gorilla ed è un successo. Nel 1999 lo cerca la Mondadori. «L’impatto era con un mondo di super laureati, tutti iperspecializzati, multilingue. Le conversazioni con me cadevano subito: da che scuola vieni? L’alberghiero. Ah… E che hai fatto? Il cuoco. Ah… Poi, a Mantova durante il Festivaletteratura, vennero a cercarmi i carabinieri: c’era una multa di cinque anni prima per resistenza passiva a pubblico ufficiale. Sfilavo tra i due angeli custodi e sulle facce dei colleghi potevo leggere: sei qui, ma non sei come noi. Me ne sono andato anche da lì, dopo essere diventato direttore».

UNA SERA DEL 2006 A BOLOGNA, durante la Fiera del libro per ragazzi, Dazieri conosce Olga Buneeva: è bella, ha 12 anni in meno, lavora per l’editore moscovita Rosnet. Ci sono gesti, in apparenza minimi, capaci di scardinare la sequenza fissa di una vita. Lei non gli dà solo il suo biglietto da visita, fa una cosa in più: disegna sul retro una mappa per non perdersi, per arrivare fino a lei attraverso la foresta degli stand.
«Tempo due settimane per aspettare il visto, ed ero a Mosca. L’anno successivo eravamo marito e moglie». A rivedere ora il periodo sembra quasi ovvio: la soluzione dello sradicamento è nel dilatare lo spazio, come se solo andando ancora più lontano, con un’altra lingua e un altro Paese, sia davvero possibile trovare una famiglia e ricominciare di nuovo. «Con Olga ha contato un fatto: parlavamo in inglese, che io non sapevo, e cercare i termini mi costringeva a riflettere, rallentava la mia tendenza a essere ossessivo, tutto diventava più sfumato. Vive qui anche la sorella che ha sposato un mio vicino. E la madre si è trasferita nella casa che abbiamo in Umbria, così cura l’orto. Tre donne fortissime, come tutte le russe. E non solo in senso mentale. Olga ha quattro lauree e parla il cinese, ma se c’è da aggiustare la lavatrice, l’affare è suo».