Michele Di Salvo, l’Unità 26/5/2014, 26 maggio 2014
QUANTO VALGONO DAVVERO GLI 80 EURO
Partiamo dall’altra parte dell’oceano. Partiamo da Twitter. Partiamo da un hashtag #1010Means. È la campagna della Casa Bianca per «stimolare» – dopo quella nazionale – la legislazione dei vari stati per elevare il salario orario minimo a 10dollari e 10cent, ovvero circa 7euro. Cosa significano questi pochi dollari? Più diritti, più servizi, e in un’economia uscita dalla crisi stimolo ai consumi, e a rientrare anche di un pò di debiti familiari. Il che si traduce in un paese tornato a crescere. Secondo il Fondo Monetario Internazionale del 7,4%.
Il tema – sempre per restare negli Stati Uniti – è di marcare il passo e cercare di evitare il sorpasso cinese, con un’economia che vola, secondo lo stesso indice, del 24,3% l’anno. Non va meglio in Europa se consideriamo che al quarto posto spicca l’India, e tra i primi dieci ci sono anche Brasile, Giappone e Russia. Certo, gli economisti occidentali si apprestano – e a ragione – a specificare: l’indice considerato è quello (scientificamente validissimo) del «paniere tipologico dei consumi», ovvero cosa comprano in media i cittadini; è chiaro che uno smartphone è indice di «maggiore ricchezza» rispetto a un vecchio telefonino, così come l’acqua minerale piuttosto che acquisti di auto nuove, e così via.
E tuttavia chiariscono che se consideriamo il reddito procapite, ovvero quanto la ricchezza prodotta è effettivamente diffusa, non solo nella popolazione ma anche considerando il livello medio di beni, servizi, strutture, aspettativa di vita, di un intero paese, allora gli Stati uniti, e quelli occidentali «possono stare sereni»: qui, ancora, resiste una qualità della vita media decisamente più alta, con servizi decisamente più diffusi e accessibili.
Eppure il tema resta, e viene ribadito con forza: difendere questo primato, che prima di tutto è di civiltà acquisita oltre che caratteristica tipica di un modello socio culturale (o almeno dovrebbe essere tale, Tea-party escluso), costa, e per farlo si deve passare dall’aumento del salario minimo, ovvero maggiore potere di acquisto e capacità di consumo, oltre che di accesso ai servizi (e in questo senso la riforma dell’assistenza sanitaria pubblica e gli investimenti nell’accesso alle scuole superiori sono un indice poco discutibile).
Mentre dall’altra parte del mondo si discute di queste cose, e salvo alcune declinazioni e piccoli distinguo sono tutti largamente concordi che queste siano «cose buone e necessarie», torniamo da questa parte dell’oceano. Torniamo in un paese che si chiama Italia, in cui la crescita, quando c’è, è raro che da dodici anni a questa parte raggiunga anche solo l’1%, in cui abbiamo il 35% in più della disoccupazione americana e in cui quella giovanile è quasi doppia. Restiamo su Twitter, e prendiamo un hashtag, #80euro. E scopriamo che la maggior parte dei messaggi e dei commenti sono ironici, sarcastici, dubitativi, e nella migliore delle ipotesi si sostiene addirittura che non servano, occorre ben altro, non porteranno benefici alle famiglie, non cambiano la vita di nessuno. Questo quando non sono un’elemosina elettoralistica. Chiunque si affanna a «costruire» il cosa si fa con 80 euro, perdendo di vista il significato di «cosa significano» quelle risorse. Rincorrere il «cosa ci farei» è banale e in parte anche offensivo. Perché è assurdo che chi guadagna molto più di un reddito inferiore ai 1500euro (ovvero i beneficiari) possa davvero capire quei soldi quanto valgono.
Secondo l’Istat nel 2012, il 29,9% delle persone residenti in Italia è a rischio di povertà o esclusione sociale. In Italia il 16,8% delle famiglie non riesce a fare un pasto adeguato almeno ogni due giorni. Il 21,2% non riesce a riscaldare adeguatamente l’abitazione. Il 14,5% delle famiglie italiane è definito dall’Istat in condizioni di «severa deprivazione materiale» in quanto presentano almeno quattro di questi sintomi di disagio: a) non poter sostenere spese impreviste, b) non potersi permettere una settimana di ferie, c) avere arretrati per il mutuo, l’affitto, le bollette o per altri debiti; d) non potersi permettere un pasto adeguato ogni due giorni; e) non poter riscaldare adeguatamente l’abitazione e: non potersi permettere: f) lavatrice g) tv a colori h) telefono i) automobile.
La spesa media mensile per un operaio è di 490 euro al mese. La spesa per alimentari media di una famiglia del nord-est è di 451 euro (su 2800 euro totali). Sono 104 euro a settimana. Nelle isole la spesa media è ancora inferiore, 441 euro al mese su 1692 euro totali, 101,7 euro a settimana, incluse Pasqua, Natale ed Epifania (come si dice dalle mie parti). Ovviamente la spesa varia a seconda dei componenti del nucleo familiare. L’Adoc ci dice che la spesa media mensile procapite degli italiani per alimenti è di 228,85 euro, pari al 15% del reddito. Fanno 52 euro a settimana; se calcoliamo il 15% su 1100 euro risultano 38 euro a settimana.
Questa è l’Italia. Quella vera. Quella del nostro tempo. Che pochi editorialisti – che la raccontano – conoscono sul serio e concretamente. Anche meno sono i politici. Nessuno può insegnare alla moglie di un operaio, casalinga con due figli, come spendere meglio e con quali priorità gli 80 euro. Francamente sarebbe umile, decoroso e rispettoso alle volte riflettere in silenzio. Anche di più basso livello è usare questa cifra per deridere elettoralmente l’avversario politico.
E ad ogni modo, per restare sul tema economico, chiariamo cosa significano questi 80 euro. Negli ultimi 34 anni sono il maggiore aumento del potere di acquisto dei salari, tra il 9 e 6,2% (per essere precisi) e sono negli ultimi vent’anni l’unico aumento effettivo del reddito medio familiare.
Cosa significano? Maggiori risorse. Nulla più. Ma ciascuna di quelle persone che li riceverà saprà come spenderli al meglio in relazione alle proprie necessità, priorità, bisogni, situazione economica generale. Nel quadro, appunto, generale, significa una forbice di 3-4,5% di maggiori consumi, probabilmente elevando la qualità e la quantità della spesa familiare, immettendo sul mercato circa 8miliardi di euro. A questo punto potremmo perderci nel tecnicismo economico finanziario, potremmo considerare la «velocità della circolazione monetaria» per capire quante volte «girano» queste risorse e quindi ancor meglio «cosa significano» per la nostra economia.
Non è la misura risolutiva, certo. Non lo è soprattutto in un paese in cui lo Stato – e in generale «il pubblico» – ha una «penetrazione» dell’economia pari al 55% del pil (mentre ad esempio negli Usa non arriva al 38%). Il che fa sì che in Italia si dipenda troppo, come stimolo economico, agli investimenti pubblici, non intravvedendo altri modelli. Eppure tutti i modelli macroeconomici mostrano come una crescita vera, di lungo periodo, dipenda più dall’aumento della capacità di spesa reale che non da una misura una tantum di iniezione di spesa, generalmente coperta dal debito, che richiede a sua volta risorse fiscali per coprirne gli interessi finanziari.
Per tornare a twitter e agli hashtag, un paese normale leggerebbe con meno partigianeria, comunque la si pensi, una misura di questo tipo, che sia l’aumento del salario orario minimo o gli ottanta euro, si tratta di un approccio, per una volta differente, nella direzione di consolidare se non la crescita quantomeno l’uscita dalla peggiore crisi economica dal primo dopoguerra (in Italia) e forse anche peggiore di quella del 1929 (negli Stati Uniti).