Gabriele Battaglia, Linkiesta 25/5/2014, 25 maggio 2014
L’IRRESISTIBILE NASCITA DI EURASIA
La palma della figuraccia va al Financial Times, che mercoledì se ne è uscito con un lungo articolo per spiegare la “sconfitta” di Putin, incapace per l’ennesima volta di vendere il suo gas alla Cina e quindi sempre più esposto sul fronte europeo (e quindi ucraino). Nello stesso istante, la China national petroleum corporation stava firmando con Gazprom un accordo trentennale - il cui valore dovrebbe aggirarsi sui 400 miliardi di dollari - per una fornitura da 38 miliardi di metri cubi annui. L’accordo è arrivato a latere del summit sulla sicurezza in Asia di Shanghai, effettivamente un po’ in ritardo rispetto alle aspettative della vigilia: schermaglie sul prezzo. Ma cosa sono alcune ore in confronto ai dieci anni che Mosca e Pechino ci hanno messo per trovare un’intesa?
Ora, a partire dal 2018, nuovi giacimenti siberiani forniranno alla Cina circa un quarto dei 150 miliardi di metri cubi che rappresentano la sua domanda odierna e quasi il totale di quello importato (53 miliardi di metri cubi); ma come ha anticipato giorni fa l’amministratore delegato di Gazprom, Alexey Miller, la fornitura potrebbe salire presto fino a 60 miliardi di metri cubi l’anno.
Per sviluppare i giacimenti e costruire i due grandi tubi da 4mila chilometri complessivi, che dalla Siberia orientale si dirameranno verso il nordest e il nordovest cinesi, la Russia investirà circa 55 miliardi di dollari e la Cina contribuirà con 25. Parte dell’investimento di Mosca sarà per altro finanziato proprio da Pechino.
Il prezzo concordato non è stato reso noto – né forse lo sarà mai – ma dovrebbe aggirarsi su una cifra compresa tra i 360 e i 400 dollari per mille metri cubi, più o meno quanto paga la Germania. E, come si è visto, era proprio il prezzo a costituire il grande scoglio che si frapponeva all’accordo.
Wang Yiwei, docente di Studi internazionali all’Università del popolo di Pechino e direttore di un paio di think-tank legati al Partito comunista cinese, ci ha spiegato che la Cina ha sempre voluto un prezzo fisso, la Russia di mercato. Ma dato che il valore di mercato è poi sceso, anche la Russia si è orientata sul prezzo fisso. A questo punto, come ci si è accordati su un valore piuttosto alto proprio mentre Mosca ha apparentemente meno potere contrattuale a causa delle vicende ucraine? Qui è entrata in gioco la politica. Secondo Christopher Johnson, del Center for strategic and international studies in Washington, Putin ha fatto capire alla controparte cinese che se non avesse strappato un prezzo soddisfacente sarebbe stato costretto a cedere ai ricatti euro-americani, perché, dopo tutto, la Russia vive dell’export di materie prime. Ed ecco che Pechino ha aperto i cordoni della borsa, valutando che nell’accordo sul gas può entrare anche la costituzione di un’alleanza sempre più strategica con Mosca: chiamiamola Eurasia.
Sia inteso: per il gas russo, l’Europa rimane il principale mercato; ma adesso c’è l’alternativa. La crisi ucraina sta accelerando sia gli sforzi europei per diversificare i propri fornitori sia quelli della Russia per diversificare i propri clienti. L’accordo con la Cina allontana ulteriormente Bruxelles e Mosca, proprio mentre le due parti stanno rinegoziando le forniture. Non a caso, un allarmato Barroso ha immediatamente scritto a Putin esortandolo a garantire le forniture di gas all’Europa senza interruzioni: «Non facciamo scherzi». Quanto all’Ucraina, deve alla Russia circa 3,5 miliardi di dollari in bollette non pagate e Mosca ha minacciato un arresto parziale o totale delle forniture se il debito non sarà saldato entro il primo giugno. Per Kiev e dintorni, il prossimo inverno rischia di essere freddo.
Va anche detto che il gas che andrà in Cina e quello che prende la via europea arrivano da giacimenti diversi. I primi stanno in Siberia orientale, i secondi nella Russia occidentale. Questo fa sì che l’accordo con Pechino possa anche non avere ricadute sulle politiche del gas a occidente. Resta però il fatto che l’intera Siberia orientale sarà probabilmente riconfigurata come grande hub energetico e il gas prenderà a breve anche la strada di Corea e Giappone. Qualcuno si è chiesto come mai, in barba all’amministrazione Obama, nessun Paese chiave dell’Asia abbia accettato di isolare la Russia nel bel mezzo della crisi ucraina?
Per Pechino l’accordo è fondamentale per diversificare le proprie fonti energetiche, in direzione di un pacchetto più sostenibile. La Cina ha i maggiori giacimenti di gas naturale della regione Asia-Pacifico e tra 2002 e 2012 ha più che triplicato la produzione, puntando a 155 miliardi di metri cubi annui entro il 2015. Ma attualmente la domanda cresce più della produzione, specie se si vuole sempre più emancipare dal carbone, e il Dragone è passato da esportatore a importatore netto nel 2007.
Al di là del fattore energetico, la ciliegina sulla torta dell’accordo è però valutaria. Finora, i prezzi veri o presunti sono sempre stati dati in dollari, ma è assai probabile che la Cina pagherà la Russia in rubli o in yuan bypassando il biglietto verde e spingendo verso la sua fine come valuta di riserva. Di fatto, nulla vieta a Mosca e Pechino di utilizzare il prezzo di riferimento mondiale in dollari per poi sistemare i propri traffici in yuan o rubli. Se poi il prezzo sarà fisso e non di mercato, tanto meglio.
È del 10 aprile, l’indiscrezione riportata da Bloomberg secondo cui Gazprom si starebbe preparando a emettere obbligazioni in yuan/Renminbi. Lo schema che si verrebbe quindi a definire è, secondo il sito di finanza “Zero Hedge”, il seguente: Gazprom fornisce gas alla Cina; Pechino paga in yuan (scambiabili in rubli); la Cina rifinanzia ulteriormente Gazprom attraverso l’acquisto di obbligazioni, sempre in yuan; la Russia acquista a sua volta beni e servizi in yuan o rubli.
Non di solo gas si tratta. Vtb, che è il secondo più grande istituto di credito russo, ha appena firmato un accordo con Bank of China per fare scambi nelle rispettive valute nazionali. In base all’intesa, le due banche prevedono di sviluppare una partnership che copre una serie di settori, dall’investment banking ai prestiti interbancari, passando per la finanza commerciale e le operazioni sui mercati dei capitali, dice il comunicato ufficiale di Vtb.
Per il dollaro Usa non ci sarebbe nulla di male se gli scambi si limitassero ai due partner d’Oriente, seppur giganti. Il punto è che anche negli accordi bilaterali stipulati con altri Paesi negli ultimi anni, Pechino ha sempre ottenuto di commerciare nelle proprie monete (anche con il “nemico” Giappone). Obbligazioni in yuan sono già commercializzate a Hong Kong, Singapore, Londra e, più recentemente, a Francoforte. Si sa che diverse banche di Hong Kong – legate alla Cina da accordi di vario tipo – stanno diversificando le proprie riserve e accumulando Renminbi. È poi previsto a luglio un vertice dei Brics (le economie emergenti) in Brasile dove dovrebbe nascere la “banca dello sviluppo” già annunciata nel 2012, potenziale alternativa al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale come fonte di finanziamento dei Paesi in via di sviluppo. In quella sede, si sceglierà probabilmente di adottare un pacchetto di valute – non più solo il dollaro – per gli scambi incrociati. E Pechino sta lavorando alla piena convertibilità della sua moneta per il 2018.
Naturalmente, il dollaro rimane la maggiore valuta globale e, a fine 2013, secondo il Fmi, rappresentava il 33 per cento delle riserve valutarie mondiali. Tuttavia nel 2000 rappresentava una quota del 55 per cento. Nessuno conosce la percentuale di yuan stipati nei forzieri globali, ma lo stesso Fmi ritiene che le riserve in “altre valute” all’interno dei mercati emergenti siano cresciute del 400 per cento dal 2003.
Alcuni commentatori si sono lanciati nel definire l’accordo sul gas "la nascita di Eurasia". Forse è ancora presto, ma c’è una tendenza in atto e sul grande tubo siberiano viaggia un’operazione più vasta, in direzione di un mondo più multipolare.