Cecilia Attanasio Ghezzi, Il Fatto Quotidiano 26/5/2014, 26 maggio 2014
DENTRO LE MINIERE CINESI DOVE VIVERE È UN MIRACOLO
Pechino
C’è un detto cinese sui lavoratori delle miniere di carbone: “tornano umani solo quando risalgono in superficie”. L’immagine dei loro volti neri di fuliggine è quella che più colpisce. Anche nel documentario di Yuanchen Liu: To the Light (2011). Segue i minatori che si infilano nei budelli della terra senza maschere protettive. Non usano martelli pneumatici, ma attrezzi rudimentali più simili ad asce. Il fascio di luce che proviene dall’elmetto, fa brillare le polveri mortali che sollevano e inalano in gallerie non abbastanza ventilate. Lavorano stesi o accovacciati in tunnel alti meno di un metro, tagliando quella pietra che gli dà da vivere e che, fin troppo spesso, è causa della loro morte. Chi rimane ammirato dallo scintillante skyline di Shanghai, difficilmente si ferma a riflettere che le luci della città sono accese dai milioni di lavoratori che lavorano in queste condizioni per una cifra che va dai dieci ai venti euro al giorno. L’energia che serve a quella che si appresta a diventare la prima economia mondiale è prodotta dal carbone per oltre il 65 per cento. Si tratta di circa 3,8 miliardi di tonnellate all’anno, un ammontare quasi pari a quello consumato in tutto il resto del mondo. E lavorare nelle miniere è spesso l’unica forma di sostentamento per le famiglie di contadini che non vogliono trasferirsi nelle lontane metropoli.
Ci sono famiglie in cui tre generazioni di maschi hanno lavorato negli stessi cunicoli. Uno dei protagonisti del documentario, il signor Luo, ha cominciato ad estrarre carbone per pagare la multa sul secondo figlio. Oggi è paralizzato a causa di un incidente. È costretto a letto, lavato e accudito da sua moglie, una donna esausta. Suo figlio ha preferito guidare i carrelli nella stessa miniera piuttosto che lasciarlo per cercare fortuna in una lontana città. I minatori conoscono i rischi per la salute e la frequenza degli incidenti sul lavoro. Persino nel film si assiste al crollo improvviso di una galleria. Uno di quei minatori non vedrà più la luce.
DI PADRE IN FIGLIO
Anche la televisione di Stato Cctv, quando racconta per immagini la vita di un operaio del carbone si sofferma sul rapporto padre-figlio: “quando ti vedo in salute, papà si dimentica immediatamente della fatica”. Documenta la prima volta che un bambino vede suo padre uscire alla luce dopo il turno notturno. È un tuffo al cuore. E il giorno dopo il piccolo lo aspetta ancora lì, lo porta ai bagni pubblici per lavargli delicatamente la faccia. Propaganda? La miniera nella regione settentrionale dello Shanxi scelta dalla Cctv, ovviamente, è completamente a norma. Gli operai, tutti nati negli anni Ottanta, indossano maschere e protezioni. L’ambiente è asettico, la produzione meccanizzata. Si tratta di una miniera che da sola produce 4,5 milioni di tonnellate di carbone, paga gli operai una cifra onesta, che si aggira sui 900 euro mensili per otto ore di lavoro al giorno. Insomma, alcuni virtuosi esempi ci sono.
Ma per molti anni le miniere cinesi hanno mantenuto un primato negativo. Negli anni Novanta facevano intorno ai seimila morti all’anno, ovvero cinque vite stroncate ogni tonnellata di carbone prodotta. E non si contano gli operai affetti da malattie polmonari. Secondo un rapporto del China Labour Bullettin (Clb) – ong di Hong Kong impegnata in difesa dei diritti dei lavoratori – la pneumoconiosi ha ormai colpito un numero di lavoratori compreso tra il milione (fonti ufficiali) e i sei milioni (stima del Clb). Si tratta di una malattia professionale che comporta reazioni fibrose croniche polmonari ed è provocata dalla prolungata inalazione di quantità eccessive di polveri. È incurabile. “Se fossi rimasto un contadino – spiega un miniatore della provincia sud occidentale del Guizhou all’Afp – avrei impiegato un anno per guadagnare quello che oggi è il mio salario mensile”. I suoi polmoni “non fanno così male”. E in ogni caso non avrebbe il denaro sufficiente per affrontare le cure mediche. Quest’anno, in occasione del Congresso del popolo, il premier Li Keqiang ha “dichiarato guerra all’inquinamento”. Il governo ha annunciato di voler porre un tetto massimo al consumo energetico, chiudere 50mila fornaci, riconvertire le più grandi fabbriche a carbone e togliere dalle strade sei milioni di veicoli altamente inquinanti. Sono state varate nuove leggi sulla sicurezza sul lavoro e chiuse almeno 5mila gallerie considerate a rischio. Ma le difficoltà a monitorare tutte le miniere presenti sul territorio cinese sono evidenti. La Cina detiene il primato mondiale per numero di miniere (circa 12mila) e per consumo di carbone. Molte misure di sicurezza erano già cominciate all’inizio degli anni Duemila. Specialmente in aree di recente sviluppo, come la regione della Mongolia interna, dove si sono cominciate a preferire le estrazioni a cielo aperto e si sono costrette le aziende impegnate nelle miniere a investire i tecnologie atte a ridurre il gas che si sprigiona dal carbone e che troppo spesso provoca le esplosioni mortali. Al tempo stesso sono aumentati i risarcimenti che le aziende avrebbero dovuto pagare per gli incidenti sul lavoro. Gli sforzi sono stati premiati da una sensibile diminuzione dei morti sul lavoro che nel 2013 si sono attestati a poco più di mille. Ma secondo alcuni il calo delle morti in miniera non è dovuto al buon lavoro del governo. O almeno non solo. Nel 2013 i prezzi del carbone sono continuati a scendere per il sesto anno di fila. La crescita economica è rallentata e la domanda è diminuita. Così la pressione sui lavoratori e gli obiettivi di produzione si sono mantenuti entro limiti di sicurezza. Ma se la domanda tornerà a crescere, i lavoratori saranno costretti a turni massacranti e ad aprire nuove gallerie in fretta, senza per forza rispettare la legislazione sulla sicurezza sul lavoro.
IL CASO DEL GUIZHOU
Questo è precisamente quello che è accaduto in una miniera della regione occidentale dello Xinjiang. Il 14 dicembre scorso un’esplosione ha provocato la morte di 22 persone. La miniera era stata chiusa dalle autorità nel giugno dello stesso anno per problemi di sicurezza. Ha riaperto appena ha potuto, con questo macabro risultato. Speriamo non accadrà lo steso nella regione sudoccidentale del Guizhou. Qui il governo ha promesso chiudere quasi la metà delle miniere attive, circa 800, entro la metà di quest’anno. Una botta per l’economia locale perché l’estrazione del carbone garantiva salari dieci volte più alti rispetto al lavoro nei campi. Ma non tutto il male viene per nuocere. Ormai l’alto rischio per la vita dei lavoratori del carbone è noto: frequenti esplosioni, malattie polmonari e carenza di acqua nelle regioni sfruttate e maggiore possibilità di frane e smottamenti. “I benefici dell’industria sono temporanei”, confessa un altro minatore al giornalista dell’Afp. “A lungo termine non c’è vantaggio”.
Cecilia Attanasio Ghezzi, Il Fatto Quotidiano 26/5/2014