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 2014  maggio 26 Lunedì calendario

VINCE LA DESTRA DI JUNCKER, MA SARÀ INCIUCIO


Bruxelles
Non bastano le elezioni per decidere chi governerà l’Europa. “Molti leader sono andati al governo con un’affluenza nel loro Paese minore del 43,1 per cento di queste elezioni”, dice Guy Verhofstadt, il candidato dei liberali a guidare la Commissione europea. Infatti il problema non è l’affluenza. Nella prima proiezione – arrivata mentre le urne italiane erano aperte – vince il Partito popolare europeo, con 212 seggi, tanti ma 54 in meno rispetto al 2009. Il Partito socialista europeo (Pse, che ora si chiama S&D) si ferma a 185 seggi, in crescita rispetto ai 184 della legislatura che si chiude, la sinistra di Alexis Tsipras ne ha 45, i non iscritti a gruppi ed euro-scettici hanno 107 posti. Secondo il trattato di Lisbona, ora i capi di Stato e di governo riuniti nel Consiglio europeo devono scegliere il presidente della Commissione “tenendo conto del risultato elettorale”. Quindi il successore di José Barroso alla testa dell’esecutivo comunitario dovrebbe essere il candidato dei popolari, l’ex premier lussemburghese Jean Claude Jucnker, che poi dovrà ottenere la maggioranza tra i 751 membri del Parlamento. Ma non è così semplice.
“Se lo vuole Juncker sarà presidente della Commissione, ma deve scendere a compromessi con noi e con le nostre richieste di cambiamento delle politiche europee, se invece vuole guidare il Consiglio lo deve dire”, avverte subito il capogruppo dei socialisti, Hannes Swoboda. La grande coalizione è lo scenario più plausibile: socialisti e popolari insieme hanno la maggioranza assoluta. La vittoria dello schieramento di Juncker non implica però che il presidente sia Juncker. Lo sfidante Martin Schulz non è ben visto da Angela Merkel: è desco e del partito rivale in patria, i socialdemocratici. Ma potrebbe guidare una commissione espressa dalle larghe intese se Juncker, che invece è fortemente sostenuto dalla Merkel, sostituisse Herman van Rompuy come presidente del Consiglio, cioè dell’organo che riunisce i governi nazionali.
Lo scenario più probabile però è un altro: quando martedì sera alle 19 la Merkel, Matteo Renzi, François Hollande e gli altri capi di governo si troveranno a Bruxelles per un Consiglio informale dedicato alle elezioni, potranno decidere quello che vogliono, anche di ignorare tentativo dei partiti europei di dare agli elettori l’impressione di poter scegliere chi li deve governare . Juncker è stato un candidato senza impegno e senza passione, non ha mai dato l’impressione di volere davvero il lavoro di presidente della Commissione e probabilmente non toccherà a lui. Il Consiglio potrebbe puntare su Schulz (improbabile), su Verhofstadt (ancora più improbabile) oppure su qualcuno che non ha partecipato alla competizione elettorale in cui per la prima volta i partiti europei indicavano anche chi volevano alla Commissione.
Forte del risultato che ha ottenuto, con il Pd che manda nell’Europarlamento più socialisti di ogni altra forza politica, Matteo Renzi avrà un ruolo decisivo nelle nomine. E a palazzo Chigi scommettono che il nome giusto sia quello di Enda Kenny che ha le caratteristiche giuste: il premier irlandese è di centrodestra ma governa coi laburisti, può piacere agli inglesi ed è ottimo per i tedeschi perché guida un Paese che ha avuto la Troika e il programma di sostegno europeo ma ne è uscito bene, i mercati che hanno apprezzato la scelta dell’Irlanda di mettere in discussione tutto tranne i privilegi fiscali per le aziende che la scelgono come sede. Oppure una scelta più traumatica: Christine Lagarde, ex ministro francese di Nicolas Sarkozy oggi a capo del Fondo monetario internazionale. Altra opzione: la premier danese Helle Thorning-Schmidt, socialdemocratica, perché una donna al vertice di una delle tre istituzioni che contano (Parlamento, Commissione, Consiglio) ci deve assolutamente essere.
Piccolo problema: nell’ultimo dibattito pre-elettorale, trasmesso in eurovisione dal Parlamento di Bruxelles, i 5 candidati alla Commissione si sono impegnati, con i loro partiti di riferimento, a non votare la fiducia a un presidente che non ha partecipato alla competizione. Parola d’onore di Schulz, di Juncker, di Verhofstadt, di Alexis Tsipras (per la sinistra) e di Ska Keller (Verdi). Un presidente imposto dall’esterno, specie la Lagarde, significherebbe l’umiliazione del Parlamento. E porrebbe i partiti europei di fronte alla scelta di subire l’onta e ammettere che le elezioni servono a poco oppure rifiutarsi di votare la fiducia, spaccando le istituzioni comunitarie. Il processo è lungo, si comincia martedì con i capigruppo che si riuniscono in Parlamento per cercare di imporre la loro linea (e la coalizione di governo) al Consiglio che si riunisce la sera stessa. Sarà battaglia, e non è detto che questa volta Angela Merkel possa imporsi perché il presidente della Commissione viene scelto dalla maggioranza dei due terzi del Consiglio e non all’unanimità. La Germania potrebbe finire in minoranza.

Stefano Feltri, Il Fatto Quotidiano 26/5/2014