Marco Belpoliti, La Stampa 26/5/2014, 26 maggio 2014
È TEMPO DI DIPLOMI
«Papà, papà, me lo incornici?». La fine dell’anno scolastico s’avvicina, e con lui terminano i corsi: nuoto, scherma, equitazione, atletica, judo, karate, danza, ecc. Subito appaiono i diplomi. Che corso è, infatti, se non c’è la prova finale? Saggio, passaggio di grado, esame. Tutta la società oggi sembra essersi organizzata così. I piccoli esami ora non finiscono più. Per questo è meglio che i nostri ragazzi si preparino sin da piccoli. Non ci sono più le grandi iniziazioni del passato, che segnavano i passaggi d’età all’interno della società. Abolito il militare, ridimensionato l’esame di maturità, spezzata la laurea in due tronconi, restano solo le tante prove dei molti corsi. Quelli sportivi sono la maggioranza, dato che i ragazzi ne frequentano almeno un paio contemporaneamente, così da obbligare i genitori a correre da una parte all’altra per accompagnarli, tra campi, palestre e piscine; il fine è fornire corpo sano in mente sana ai figli (ma anche tenerli occupati in modo «sicuro»).
La cerimonia di fine anno è un «must», cadenzata dall’emissione dell’inevitabile diploma. Naturalmente lo si paga. Non molto, dato che è solo un pezzo di carta di limitate dimensioni. Ma per apporre il nome del ragazzo o della ragazza sotto le insegne, o il logo del corso bisogna sganciare. Dai 5 ai 10 euro, a secondo del tipo di attività, o la preziosità della carta su cui è stampato. Il «diploma» è in «un’attestazione ufficiale rilasciata da un’accademia, un ente, che conferisce un grado, un diritto o un privilegio». Così nel Settecento. Prima era «atto solenne d’una cancelleria imperiale o reale». Solo nell’Ottocento si è cominciato a parlare di «diploma scolastico», su cui sono modellati i diplomi ora consegnati nei corsi frequentati dai nostri figli.
Il significato della parola «diploma» deriva a un termine latino, diploos, che significa «doppio», dato che in origine si trattava di una tavoletta o carta piegata in due. Nel suo celebre dizionario Panzini (1908) parlava di «diplomato» per indicare il «patentato fornito di diploma», a suo avviso uno dei più brutti neologismi in uso nelle scuole. Salvo poi, in epoca fascista, nel 1931, sconfessare la sua stessa valutazione. Cercando nei dizionari non s’incontra mai alcun riferimento al fatto che il diploma costa fatica e, come nel caso attuale, denaro. Forse la sua doppiezza consiste in questo: pagarlo e appenderlo nella cameretta.
Marco Belpoliti, La Stampa 26/5/2014