Adriano Sofri, la Repubblica 26/5/2014, 26 maggio 2014
ANDY, ANDRYJ E GLI ALTRI FREE-LANCE CORAGGIOSI CHE SFIDANO LA MORTE PER MOSTRARE LA GUERRA
L’italiano era un fotografo di 30 anni, il russo Mironov che è morto con lui in una buca nei dintorni di Sloviansk era un dissidente e attivista dei diritti umani di 60. «Se sei nel posto giusto le cose succedono», dicevano. Ma il loro non è solo un lavoro. Quando vanno in Ucraina, Daghestan, in Inguscezia, nell’Ossezia di Beslan o in Afghanistan o nelle primavere arabe, la voglia di emergere o di mettersi alla prova che all’inizio li muove cede presto alla passione per gli altri. Fino a diventare una seconda vita. Perché per fare il reporter dei conflitti che insanguinano il pianeta bisogna soprattutto avere fiducia nel valore di ciò che si dice al mondo. Sapendo che il mondo non ne ha voglia.
Ho guardato, l’avrete fatto anche voi, tutto quello che trovavo in rete sui due uomini trucidati in una terra di nessuno a Sloviansk: un fotografo free-lance italiano e il suo traduttore, avevano detto le prime notizie. Poi erano arrivati i nomi — si chiamavano Andrea tutti due, Andrea Andy Rocchelli e Andryj Mironov — e infine la conferma che erano morti. Di Rocchelli, che a 30 anni era uno dei migliori fotoreporter italiani, avevo già visto le fotografie in bianco e nero da Kiev, non abbastanza da impararne il nome. Per noi spettatori comuni le fotografie memorabili sono come certe canzoni, che riconosciamo anche se non sappiamo chi fosse l’autore. Di Mironov, 60 anni, il doppio dell’altro Andrea, sapevo molte cose, perché era un personaggio di primo piano per chi si fosse occupato di opposizione in Russia e di Caucaso.
Imparare a fotografare, filmare, scrivere, è importante: ma la cosa più importante è trovarsi nel posto giusto. «Put yourself in the situation and things will happen»: l’ho trovato nel sito dell’agenzia di Rocchelli e dei suoi compagni, Cesura, fa da titolo a una mostra. Se vai nel posto giusto, le cose succedono: uno scatto essenziale, un video incomparabile. Succede anche di morire, nel posto giusto. La probabilità (la fatalità, la chiamano poi quelli rimasti a casa) è in proporzione diretta con il valore della testimonianza. Si mette su un piatto la verità da vedere e mostrare, sull’altro il rischio. In rete ho letto il consiglio di un fotografo professionista agli aspiranti free-lance: «Concentrati sulle foto che possano trovare un compratore. Soprattutto sport, matrimoni, eventi in generale». Eventi in generale è un modo educato di tacere l’esuberante offerta mondiale di guerre, catastrofi, crimini, naufragi, epidemie che si apre davanti alla domanda dei freelance che ormai siamo pressoché tutti, ognuno con la sua misura di allontanamento da casa. C’è un video girato da Rocchelli nella guerra civile kirghiza del 2010: occorre stomaco forte per guardarlo, dà la misura del suo coraggio, e anche della fiducia che bisogna avere nel valore di ciò che si mostra al mondo, sapendo che il mondo non ne ha voglia.
Rocchelli e i suoi amici spiegano che i loro lavori commerciali servono a pagare i reportage dai luoghi delle guerre e dei dolori senza voce. Amano la fotografia, si sono formati alla scuola dei migliori, considerano essenziale la stampa. Quando si va, come aveva fatto Rocchelli, in Daghestan, o in Inguscezia, o nell’Ossezia di Beslan, o in Afghanistan e nelle primavere arabe e nella piazza Maidan, qualunque ragione vi abbia spinti, la voglia di emergere, o di mettervi alla prova, cede presto, nei migliori, alla passione per gli altri. Si guadagna una doppia vita: si conserva la propria, il paese, la casa, la famiglia — il figlio di tre anni — cui ogni volta si torna, e se ne conquista una dentro un altro paese, un altro popolo, senza più casa, con le famiglie squartate, i bambini orfani. Che Rocchelli e Mironov fossero insieme in quella terra di nessuno degli sparatori non è un caso, e nemmeno una fatalità. Se non sbaglio, erano stati compagni di quella missione civile già nel Caucaso. Mironov, figura di rilievo di Memorial, amico di Anna Politkovskaja, dissidente nella vecchia Urss e nella “sbirrocrazia” putiniana (così la chiama, ricordando si compone al 75 per
cento di ex dipendenti del KGB), fu prigioniero ancora in epoca gorbacioviana per diffusione di samizdat («ricopiai a mano migliaia di libri»), subì una pesante aggressione fisica, si batté tenacemente per la nonviolenza contro la guerra cecena. In Italia era assiduo, da ultimo era venuto a sostenere che la lotta per la democrazia in Russia coincideva con la lotta per la democrazia in Ucraina e per l’Europa dei diritti. Radio Radicale (era stato iscritto) ha ritrasmesso un’intervista del 2004 in cui spiegava nel suo italiano limpidissimo che la storia era sempre quella del “piccolo Cappuccio Rosso”, e che c’era sempre bisogno di una guerra, oggi in Cecenia, domani in Georgia — dopodomani in Ucraina — per rispondere alla domanda: «Perché hai i denti così grandi?» Secondo il Cremlino, diceva, «non c’è nessuno a cui parlare, in Cecenia, c’è solo a cui sparare».
Delle tante fotografie che abbiamo guardato ieri, dopo la notizia dal Donetsk, due specialmente vorrei ritenerne: una fatta da Rocchelli, e una no. La prima, che era comprensibilmente in cima a tanti siti, è quella dei bambini seduti in uno scantinato, uno sgabuzzino sotto una botola, per ripararsi dalle bombe: dieci bambini «adottati dalla famiglia Kushov», a colori questa volta, stretti su panchetti di fortuna sotto vasi di conserve e sottaceti, che guardano in su verso il loro giovane visitatore italiano diventato padre. Niente di più ovvio che fotografare bambini dentro una guerra civile: per questo era difficile fare una fotografia così bella. Il servizio andò sulla Novaja Gazeta , il giornale di Anna Politkovskaja.
La seconda foto è quella in cui Rocchelli e Mironov, l’Andrea veterano e l’Andrea giovane, sono in posa l’uno accosto all’altro. Se sorridessero, sembrerebbe che stiano inscenando per scherzo una certa aria marziale. Ma sono seri, e Mironov, sovrastato nella statura, se ne sta testa alta, con la fierezza che si terrebbe davanti al fotografo della matricola carceraria. Quando lo liberarono, Mironov dichiarò: «Sono un turista che ha visitato il gulag». Questa volta magari avrebbe detto: «Sono un turista che ha visitato l’Ucraina». Il colpo di mortaio ha portato via la testa a Mironov.
Rocchelli, ha detto il suo amico e collega Micalizzi, voleva raccontare la storia di due amici ucraini che si trovavano dalla parte opposta della barricata: come in tutte le guerre civili, come in tanta storia italiana. Andrea, Andryj, sono finiti in mezzo, e hanno fatto da bersaglio deliberato; poi lo scambio di accuse fra kievisti e filorussi. Scambio inutile: sono stati ambedue. Naturalmente, a riguardarla ora quella fotografia sembra attraversata da un presagio. Non è così, era una foto ricordo, che si sarebbero portati indietro, uno a Mosca, l’altro sull’Appennino piacentino, fino alla prossima missione. Però nelle donne e negli uomini che partono per andare agli angoli bui della terra, a vedere e raccontare, o a curare e aiutare, o solo a capire, l’ombra di un presagio c’è, anche quando ridano forte, facciano le smorfie e dicano alla camera: Ciao mamma.
Adriano Sofri, la Repubblica 26/5/2014