Sergio Romano, Corriere della Sera 26/5/2014, 26 maggio 2014
LE SVENTURE DELLA SVIZZERA UN PAESE UN PO’ MENO FELICE
Il 6 maggio, la Svizzera ha firmato a Parigi l’accordo, richiesto dall’Ocse, per lo scambio automatico di informazioni fiscali. Come conseguenza, le autorità italiane non avranno più bisogno di una richiesta della magistratura, per ottenere i dati degli evasori.
L’accordo prevede che, entro tre anni, verrà abolito il segreto bancario, la cui protezione risale addirittura al 1934.
Io avrei seri dubbi sull’effettiva esecuzione di tale provvedimento (in tre anni può succedere di tutto), considerando che il Paese è sempre stato il paradiso fiscale per eccellenza, forziere di capitali di ogni natura, provenienti da tutto il mondo. Probabilmente, questa è stata, anche, una delle ragioni perché il nazi-fascismo ne ha sempre rispettato la neutralità. Cosa avrebbe la Svizzera da guadagnare da un cambio così radicale della sua politica?
Arturo Passalacqua
Caro Passalacqua,
L’accordo firmato dalla Svizzera (insieme a Singapore) è soltanto l’ultima sconfitta nella lunga battaglia di retroguardia che il Paese ha lungamente combattuto per la conservazione del segreto bancario. Si sta chiudendo, nel frattempo, il contenzioso di Crédit Suisse (Cs) con le autorità fiscali degli Stati Uniti. Mentre l’Union des Banques Suisses, nel 2009, chiuse la partita fornendo informazioni su circa 250 clienti americani e pagando la somma di 780 milioni di dollari, Cs potrebbe patteggiare con il pagamento di 2,5 miliardi di dollari di cui 1,7 per il Dipartimento di Giustizia e 600 milioni per il New York State Department of Financial Services (Corriere del Ticino del 17 maggio e Massimo Gaggi sul Corriere del 21 maggio).
Ma questi sono soltanto alcuni dei mali che affliggono ora il popolo che un saggista svizzero, Denis de Rougemont, aveva definito «felice» in un libro del 1965 («La Suisse ou l’histoire d’un peuple heureux»). La cartella clinica del Paese, a prima vista, è invidiabile. La disoccupazione è al 3%, il debito pubblico è grosso modo un quarto di quello della Repubblica italiana, la crescita annua del Pil (Prodotto interno lordo) è intorno al 3%, e il reddito medio dei suoi abitanti occupa il sesto posto nella categoria dei Paesi più ricchi. Ma esiste un populismo svizzero che sembra deciso ad eliminare, con i referendum e le iniziative popolari, alcune delle condizioni che hanno permesso alla Confederazione di creare ricchezza per la società nazionale. Qualcuno vorrebbe fissare una soglia per i salari dei dirigenti industriali e bancari. Altri vorrebbero un salario minimo mensile non inferiore ai 3270 euro (l’iniziativa è stata bocciata negli scorsi giorni). Altri ancora hanno chiesto e ottenuto l’introduzione delle quote per gli immigrati provenienti dai Paesi dell’Unione europea: una decisione adottata dalla maggioranza degli elettori svizzeri ma incompatibile con gli accordi bilaterali negoziati con l’Ue dalla Confederazione quando un referendum, nel 1992, aveva precluso al governo di Berna l’ingresso nell’Area economica europea.
Di tutte le iniziative popolari quest’utima è la più pericolosa. Gli accordi bilaterali concernono sette aree distinte, ma contengono una «clausola ghigliottina»: se una delle parti non osserva un impegno, l’altra può denunciare l’intero pacchetto. In altre parole, se la Svizzera introduce quote per i lavoratori provenienti dai membri dell’Unione, Bruxelles può revocare le altre concessioni e in particolare quelle che consentono alla Svizzera di collocare nell’Ue il 56% delle sue esportazioni. Vi saranno negoziati sulla base di proposte che la Svizzera avanzerà verso la fine di giugno. Ma Denis de Rougemont, scomparso nel 1985, sarebbe costretto a cambiare il titolo del suo libro.