Filippo Di Giacomo, il Venerdì 23/5/2014, 23 maggio 2014
LÀ DOVE OSANO LE TONACHE
Roma. Quando i cardinali di Santa Romana Chiesa vennero fatti, loro malgrado, «principi di sangue», la Chiesa non capì ma si adeguò. Per spiegare il train de vie che i porporati cattolici abitanti in Roma fingono di poter ancora mantenere, bisogna risalire all’atto unilaterale del 1871 con il quale il governo italiano, subito dopo la presa di Porta Pia, tentò di regolare i rapporti con la Santa Sede mediante la «legge delle guarentigie». Pio IX rispedì al mittente, con l’enciclica Ubi nos, sempre del 1871, le gentili concessioni dell’allora Regno d’Italia (inviolabilità della persona, immunità dei luoghi di residenza, un generoso appannaggio uguale a quella del re, il diritto di ricevere ambasciatori e di accreditarne). Ma bisognava pur vivere e fu così che i cardinali presto si adeguarono a come il Regno d’Italia li vedeva, e forse, li voleva: tutti principi ereditari, futuri papi regnanti.
Le loro residenze romane man mano si dotarono di nobili spazi («anticamera, camera, sala di ricevimento, sala del trono, cappella prelatizia») e degli altri aulici orpelli che ingombravano le residenze aristocratiche del tempo.
Oggi, gli abbondanti metri quadri dell’appartamento di cui usufruirà l’ex segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone una volta ultimati i lavori di ristrutturazione, non risultano molti se paragonati alle metrature di cui godono i suoi confratelli alloggiati negli appartamenti dei cosiddetti «propilei piacentiniani», i due palazzi che strozzano via della Conciliazione, o in quelli di piazza della Città Leonina (dove abitava il cardinale Ratzinger) o nel cosiddetto palazzo del Vicariato in piazza San Callisto in Trastevere: tutti appartamenti da 800 metri quadrati in su. Pensati in epoca concordataria dall’architetto Marcello Piacentini come il pendant clericale del monumentismo fascista, con l’evolversi della Chiesa e delle consuetudini clericali sono diventati ingombranti e spesso polverosi spazi, difficili da riutilizzare e gestire, arredati con gusto appena decente, con pezzi forniti perlopiù dalla «floreria pontificia», il deposito di mobili in cui viene immagazzinato quanto raccolto dalle case dei porporati defunti. Una regola con una sola eccezione, quella della residenza dell’arciprete di San Pietro, il cardinale Angelo Comastri: 900 metri quadri arredati con mobili di alto antiquariato, un appartamento certamente più lussuoso di quello riservato, nei palazzi apostolici, allo stesso Pontefice. In realtà, visto il reddito, l’età avanzata e la scarsa propensione alla vita domestica dei cardinali, più che residenze da «principi della Chiesa» gli appartamenti dei cardinali sembrano piccoli conventi dove i porporati vivono in compagnia di tre-quattro suore che forniscono loro assistenza e manutenzione della casa. Tutte cose che però hanno un prezzo. Quando nel settembre del 2000 il cardinale Vincenzo Fagiolo morì, sul suo conto non vennero trovati risparmi sufficienti per provvedere al funerale: se ne fece carico la diocesi di Chieti e Vasto, dove per circa un decennio era stato presule. La stessa sorte, tre anni prima, spettò al cardinale Ugo Poletti, esiliato dopo la cessazione dagli incarichi di Vicario di Roma e presidente della Cei, nell’immenso appartamento da arciprete a Santa Maria Maggiore. Morì per un improvviso attacco cardiaco nel febbraio del 1997 con il conto praticamente azzerato, si disse all’epoca, da un segretario molto esperto in affari. Non a caso chi è meno portato alla vita conventuale sciama verso immobili più tranquilli e cerca case meno impegnative: il cardinale Camillo Ruini si è rifugiato all’ultimo piano del seminario diocesano di Roma, in via Aurelia dove, con la signorina Pina, la sua storica perpetua, occupa circa duecento metri quadri calpestabili: quelli abitabili, sono molti meno. Anche il cardinale Joseph Tomko, a lungo prefetto di Propaganda Fide, pur potendo scegliere ben altre situazioni, si è accontentato di circa cento metri all’ultimo piano del Palazzo dei convertendi in Via della Conciliazione: unico lusso, un terrazzo su uno degli scenari più belli del mondo. Così, per tornare al cardinale Bertone, fatta la tara del terrazzo (si dice, circa duecento metri quadri) e tenuto conto che la sua particolare «famiglia» è composta da quattro anziane religiose, i metri quadrati pro capite restano più o meno quelli a disposizione degli abitanti della Domus Sanctae Martae, la residenza sacerdotale dove papa Bergoglio sta tentando, con il suo esempio, di riabituare i preti a vivere in comunità.
È questa l’opzione che la Chiesa di papa Ratzinger aveva escogitato per riportare sotto controllo il variegato, e non particolarmente esemplare mondo clericale che in epoca wojtyliana popolava Vaticano e dintorni. Uno dei primi tentativi fu fatto da Propaganda Fide, durante la presidenza del cardinale indiano (ma con lunga esperienza in Curia e nella diplomazia d’Oltretevere) Ivan Dias. Il buon porporato si riservò un modesto alloggio in un immobile di via Carducci a Roma, acquistato e ristrutturato per accogliere, in altrettanti mini appartamenti, quindici ecclesiastici. Ma di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno e la lodevole volontà subì molteplici intoppi. Come raccontato su Repubblica da Carlo Bonini proprio nell’ imminenza del Conclave 2013, un immobile posto sul mercato al prezzo di nove milioni di euro venne acquistato per ventitré nonostante lo scorporo delle proprietà del piano terra e di quello interrato, occupato (così recita il sito dedicato di Europa Multiclub) alla «gay sauna e bed house» più grande d’Europa. E qui si entra in uno dei miti più coriacei dell’eterna Roma papalina, quello della Propaganda Fide proprietaria delle «case dei preti», associazione tanto segreta quanto detentrice di un immenso patrimonio nascosto sotto un ricco e spesso reale corredo di loschi traffici, passaggi di buste, lussuosi attici e intrallazzi della immarcescibile Casta. In realtà, per sapere cosa essa rappresenti nel tessuto urbanistico e sociale dell’Urbe è sufficiente guardare i registri pubblici: nel 2012, l’ente vaticano preposto alle missioni cattoliche ha pagato al Comune di Roma un milione novecentocinquantaduemila euro di Imu. Nello stesso periodo, ha versato allo Stato italiano le imposte dovute sui redditi di circa 800 appartamenti situati tra Roma, Bologna, Milano e altre località italiane. In realtà, in cima ai grandi possidenti immobiliari di Roma va posta l’Apsa, l’amministrazione del patrimonio della sede apostolica, che conta circa 1.800 appartamenti locati. A ruota, però, seguono patrimoni non ecclesiastici, come quello rivelato da recenti cronache di evasione fiscale relative alla figlia di un famoso palazzinaro romano titolare di ben 1.243 appartamenti. Per tornare alle «case dei preti», altre grandi proprietà hanno la finalità di fornire mezzi e manutenzione ad altri enti ecclesiastici della Capitale, ma sono gestiti da autorità statali straniere. Si tratta dei Pii stabilimenti teutonici, francesi e spagnoli: circa 300 appartamenti nel centro di Roma e altre proprietà situate ai castelli e nella campagna romana. Da qui si penetra nella galassia delle «confraternite», le associazioni di laici, spesso a carattere professionale, che nella Roma cinque-seicentesca sovente hanno avuto origine da una ricca dotazione immobiliare che i confratelli, attraverso i secoli, hanno accresciuto con donazioni e buone amministrazioni. In vetta alla lista, va certamente posta per alcuni buoni motivi il Pio Sodalizio dei Piceni, l’associazione di marchigiani residenti a Roma, attiva sin dal 1600.
Da Piazza Navona a Ponte Sant’Angelo, l’intero quartiere è composto da case di sua proprietà. Fu il Pio Sodalizio dei Piceni a introdurre nella propria amministrazione una joint-venture tra l’Opus Dei romana e l’ala milanese di Comunione e Liberazione, quella diretta dalla Compagnia delle Opere, applicando come metodo quello di cedere le proprie case, dichiarate precarie, in comodato gratuito ai soliti noti, per lunghi decenni, con il solo onere della ristrutturazione. E così, i furbi, di case di preti ristrutturate a loro spese ne hanno più di una, anche riaffittate da società di comodo come loro ulteriore rendita, oppure trasformate in bed and breakfast veramente speciali: l’arredo è barocco, la fama è quella delle antiche maisons de passe. Il sistema sembrava talmente ben collaudato che il cardinale Crescenzio Sepe lo incardinò anche a Propaganda Fide, ponendolo sotto l’egida di tre «pezzi da novanta» come Angelo Balducci, Pasquale De Lise e Francesco Silvano, coordinati dall’opusdeista don Francesco Di Muzio e dal ciellino Padre Massimo Cenci. Come poi sia andata a finire, lo stiamo apprendendo dalle cronache giudiziarie.