Piero Melati, il Venerdì 23/5/2014, 23 maggio 2014
IO, SILVIO E MISTER X... LA STORIA DI FORZA ITALIA RACCONTATA DA DOTTI
Milano. Una talpa di Berlusconi nel cuore della Procura? Gennaio 1996, villa di Arcore. Vittorio Dotti, capogruppo di Forza Italia, si precipita dentro senza essere annunciato. «Silvio, che succede?» dice al Cavaliere, «perché non riusciamo più a vederci?». Berlusconi lo guarda fisso negli occhi: «Perché la tua donna sta testimoniando contro di noi. Tu lo sapevi e non ci hai detto nulla». Ricorda oggi Dotti: «Mi si gelò il sangue nelle vene. Come era stato possibile? L’inchiesta era blindata e secretata, chi poteva averglielo detto?».
La donna di Vittorio Dotti era Stefania Ariosto, figlia di una spia inglese, proprietaria a Milano di un negozio di antiquariato in via Montenapoleone, affetta dallo stesso vizio di Fedor Dostoevskij per l’azzardo. Dal luglio del ‘95 Ariosto era diventata la teste Omega, firmando una ventina di verbali. Frequentatrice dello yacht Barbarossa di Cesare Previti, l’avvocato romano cofondatore di Forza Italia ed ex ministro della Difesa, condannato nei processi Imi-Sir e Lodo Mondadori, la teste Omega aveva raccontato al pool milanese di Mani Pulite di avere assistito, nel 1988, nell’appartamento di Previti, al passaggio di denaro tra lo stesso Previti, l’avvocato Attilio Pacifico e il capo dei gip romani, Renato Squillante. E aveva aggiunto: un’altra busta era stata consegnata da Previti a Squillante dopo una partita di calcetto al Circolo canottieri Lazio: «A Renà, te stai a dimenticà questa» avrebbe gridato Previti attraversando di corsa il parcheggio.
Previti, aveva svelato Ariosto ai magistrati, disponeva di fondi illimitati per addomesticare a suon di milioni il tribunale di Roma, battezzato allora «il porto delle nebbie». Sono Previti, aggiusto sentenze: così, in sostanza, il teste Omega aveva dipinto il legale. Aveva citato anche un altro episodio: di quando, alla fine degli anni Ottanta, lei e un socio coltivarono il progetto di un campo da golf nelle campagne a sud di Milano. Tutto pronto, mancavano i permessi. Stefania Ariosto chiese consiglio a Previti, che le fornì la dritta: «Fai come faccio io. Daje ‘na borza piena de sordi». Ma tutto questo era come il segreto di Fatima. Lo stesso Dotti era stato convocato dal pool milanese nel settembre del ‘95. Aveva appreso delle rivelazioni della fidanzata, racconta oggi, solo nel luglio precedente. I magistrati lo vincolarono al segreto, pena una richiesta di carcerazione. Perciò Dotti rimase sconvolto nell’apprendere che Berlusconi sapeva tutto, in quel gennaio (l’arresto di Squillante sarebbe scattato il successivo 12 marzo).
«Succederà un casino» sussurra Berlusconi quel fine gennaio. «Ma chi te lo ha detto?» insiste ancora Dotti. L’ex capogruppo di Fi ed ex avvocato di Fininvest oggi racconta: «Silvio mi confidò di averlo saputo da un notissimo personaggio del mondo giudiziario, di cui mi fece anche il nome. L’ultimo, davvero, che mi sarei aspettato di sentire. Per un attimo rimasi senza parole».
Una talpa di Berlusconi nel cuore della Procura di Milano? Oggi Vittorio Dotti, a vent’anni dalla «discesa in campo» di Berlusconi (una espressione coniata dallo stesso Dotti, che il Cav fece sua e che da allora ha fatto scuola), ha scritto le sue memorie (L’avvocato del diavolo, Chiarelettere) ma ha scelto di omettere il nome della talpa. Ha scritto la circostanza e ha messo in sequenza i fatti: il caso Previti scoppiò soltanto il 12 marzo del ‘96, con l’arresto del giudice Squillante. Prima di allora, nessuna indiscrezione era circolata. I primi particolari si appresero soltanto l’indomani dell’arresto, il 13 marzo. «Quel giorno il mio nome apparve sulle prime pagine di tutti i giornali. Il Corriere della Sera annunciava: “Nell’inchiesta del pool milanese c’è un supertestimone: sarebbe Stefania Ariosto, da nove anni compagna di Vittorio Dotti, leader dei deputati di Forza Italia. La donna ha ricevuto minacce di morte e da mesi vive a Milano sotto scorta”. L’articolo, quasi per uno scherzo del destino, era firmato da un certo Alessandro Sallusti».
Avvocato Dotti, ma il nome della talpa? «Non lo dico. Posso solo aggiungere che quella fatta a Berlusconi non mi sembrò una confidenza casuale oppure frutto di un contesto più complesso, costituito magari da comuni conoscenze. No. Fu per me una cosa del tutto inattesa. Mi sembrarono gli estremi che si toccano e si danno la mano. Non mi sembrò conseguenza di una qualche simpatia, come quelle che a volte ci impediscono di infierire sull’avversario. Piuttosto, ebbi l’impressione che sotto ci fosse una qualche aspettativa. Certo che per me rimane ancora oggi una cosa molto misteriosa.
Dopo quel colloquio del gennaio ‘96, Dotti non ha mai più rivisto Berlusconi. Per il suo «tradimento» non venne mai più ricandidato. Oggi ritiene che l’incendio nel quale bruciano il Cavaliere e i suoi proconsoli non è dovuto al caso, ma «è coerente con il fenomeno di Berlusconi sceso in politica». Vagliando le vicende giudiziarie dei «padri fondatori» di Forza Italia (Marcello Dell’Utri, Cesare Previti, Claudio Scajola e dello stesso Cavaliere) il giudizio è duro: «Una vera struttura di partito non è mai esistita. Esiste solo il rapporto tra Berlusconi e gli elettori. Si è sempre trattato di un treno lanciato a gran velocità, dove sono salite un sacco di persone, che nulla avevano a che fare con il destino del Paese. Erano mossi esclusivamente da interessi personali. Hanno avuto in cambio cariche, ministeri, potere. E c’è chi addirittura ha commesso reati. Ora i nodi sono venuti al pettine. I più stretti collaboratori, hanno puntato tutto sulle capacità di Berlusconi di replicare i suoi successi anche in politica. Ma non hanno mai dato altra impressione se non quella di farsi i fatti propri».
Per il resto, il fenomeno Berlusconi va contato con gli spiccioli. «Passa una donna e ci si volta a guardarla, segnano un gol e si esulta. Questa la sua filosofia. La banalità è la sua forza. Essere uguale agli altri. La massa è come lui. Di eccezionale ha solo la normalità, e ne ha fatto una autostrada per arrivare al consenso». Poi c’è l’impero mediatico, gestito secondo un aureo principio: la tv è quella cosa evanescente che deve ruotare attorno alla pubblicità. E poi c’è Dell’Utri, che sosteneva: in politica mandiamo quelli di cui in azienda possiamo fare a meno. E poi c’erano i quattromila miliardi di esposizione con le banche, la più potente delle motivazioni. «Scendere in politica era un business, e nemmeno il primo dei suoi business» spiega Dotti. E poi, se la politica era guerra, via libera alla macchina del fango. «Sono stato il primo a provarne il funzionamento» ricorda. E poi l’astuzia. «Quando Alfano si separò, ho pensato: vuoi vedere che è solo un gioco delle parti? Bisognava tenere in piedi i governi... Oggi credo che si sia riproposto lo scontro interno tra falchi e colombe dei miei tempi». E infine, c’è la strega. «Si, vero. Berlusconi ci diceva sempre di essere una strega». Che avrà voluto dire?