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 2014  maggio 23 Venerdì calendario

MA ORA NON RIESCO PIÙ A GUARDARE UNA PARTITA


Bucine (Arezzo). Capita di partire da un oratorio di Prato e di finire mescolato alle leggende. Ti chiami Rossi come in migliaia di famiglie d’Italia e diventi Pablito. Tre gol nel ‘78, l’Italia che arriva quarta ai Mondiali e tu ti trasformi in una star. I gol sono sei nel 1982, l’Italia è campione e tu incarni una nazione. Paolo Rossi, Italia: così dicevano perfino nell’angolo più remoto del posto più sperduto sulla faccia della terra. Che cosa sono i Mondiali di calcio. «Ma la mia non è stata una storia normale e serena. Ho toccato picchi vertiginosi, sono salito in cielo e sono sprofondato nel buio. I Mondiali mi hanno dato cose incredibili e poi sono ricaduto». Paolo che diventò Pablito oggi ha 58 anni, vive in uno spicchio della campagna aretina, alle spalle del suo agriturismo pieno di turisti tedeschi e finlandesi, e del calcio si libera ogni minuto che può. Le maglie le ha regalate tutte, le ultime sono andate perse nell’alluvione di Vicenza, il Pallone d’oro è un ricordo che non ha in casa. Al massimo ci sono un paio di foto nello studio, di fianco al computer.
«Vinco il Mondiale nel 1982 e un giorno
mi scopro a pensare: e ora? Non mi restava più niente da inseguire. Ho vissuto gli ultimi anni della mia carriera con la difficoltà nel trovare motivazioni. Problemi fisici. Ero pieno di dolori, non mi divertivo più. Bearzot mi volle ancora al Mondiale ’86 perché rappresentavo qualcosa. Cercava un mio clone in Galderisi, io non ero più io. Ho trascorso gli ultimi anni da calciatore pensando a cosa avrei fatto dopo». Tutto, tranne che restare nel suo mondo. «Sapevo che dal calcio sarei scappato. Avevo voglia di conoscere cosa fosse la vita, la vita vera, dico. Chi fa il calciatore non lo immagina. C’è un mucchio di gente intorno a te che ti organizza le giornate. Vivi dentro una bolla, è un altro mondo. Io sapevo solo che dovevo fuggire da lì. Volevo sapere cosa fosse il tempo. Il mio era sempre stato scandito dalle partite. Il campionato, le Coppe, la domenica, il mercoledì. Ecco, io volevo riprendermi il tempo. La libertà. Volevo sapere cosa significa entrare alla posta a pagare una bolletta, cose piccole, cose così». Le cose che Pablito non poteva fare. Riprendersi Paolo. «Ho smesso di guardare le partite. Stop. Staccato. Ancora oggi, non riesco a vederle tutte, dopo 10 minuti finisce che cambio canale». Rossi il mercoledì sera è in tv, a parlare di Champions. Ma ci vuole poco a leggergli dentro il disincanto con cui in qualche intervista si raccontava già negli anni Ottanta, quando chiamava il calcio il suo tormento. «Sdrammatizzo, cerco l’aspetto umano. Quando ho smesso, all’inizio l’effetto era stranissimo. Mi sentivo come fuori da un recinto, ma non sembrava la mia vita, mi sembrava di vedere un film in cui qualcuno viveva al posto mio. Ho cominciato a fare il libertino. Sentivo di non avere più tutti gli obblighi di prima». Ciao calcio, Rossi comincia a fuggire. «I miei amici più veri a Vicenza sono un macellaio, un ragazzo che ha un banco al mercato, un imbianchino e uno che vende oro. Organizzavo viaggi, per me e per loro. Siamo stati in Belize, nel Borneo, in Giamaica. Mi riprendevo la vita normale che i Mondiali mi avevano stravolto. Ero un calciatore di fama planetaria: un certo effetto lo può fare».
Un certo effetto significa sentirsi onnipotente. «Ti basta alzare il telefono per ottenere tutto. Tutto. Ma c’è stata una cosa sola che mi ha spinto a sfruttare il mio nome e la mia popolarità. La pittura. Una passione condivisa con Bearzot, che era amico di Aligi Sassu: ce l’aveva trasmessa il massaggiatore della nazionale, De Maria. Telefonavo ai pittori, mi presentavo, sono Rossi, il centravanti, chiedevo
di poter stare mezza giornata con loro, a guardare il lavoro. E così sono andato sei o sette volte da Guttuso, mi hanno ospitato Treccani, Migneco, Arrigoni. Quando eravamo all’estero, ne approfittavo per andare in giro per musei. È successo che ne abbiano aperti di notte, solo per me. I quadri sono stati per anni la mia droga. Più ne compravo, più ne volevo di una fascia superiore. Finché mi sono accorto di essere arrivato a un livello oltre il quale non potevo salire, lì ho capito che dovevo frenare e staccarmi un po’».
Prima di essere Pablito in due Mondiali, Paolo d’estate lavorava come barista al circolo di fronte casa dei suoi. «Guadagnavo i primi soldini preparando i caffè e i gelati. A 13 anni volevo fare l’astronauta, avevo visto Armstrong in tv. Chiesi a mio nonno: ma come si fa ad andare sulla Luna? E lui rispose: eh, andare sulla Luna, si deve prima asfaltare tutta la strada». È stato questo mondo genuino e sincero a tenerlo a galla, quando il calcio gli ha dato e quando il calcio gli ha tolto. «Mi hanno aiutato le mie radici, la semplicità della mia famiglia. Mio padre lavorava in amministrazione in un’azienda di tessuti, mia madre faceva la sarta. Lo stipendio era quello che era, ma sono cresciuto felice. Se vieni da due persone così, non è che da un giorno all’altro pensi di andare a comprarti uno yacht da cinquanta metri. Così come mio fratello, si chiama Rossano, anche lui ha provato a giocare a calcio. Era nei ragazzi della Juve, poi al Prato, all’Empoli. Centrocampista. Non credo sia stato geloso di me, non gliel’ho mai chiesto, era a Madrid la notte della finale con la Germania. I miei la domenica venivano a guardarmi, ma non gliene importava niente della squadra per cui giocavo: venivano a vedere il figlio. Guadagnavo bene, si poteva pensare al futuro, ma non eravamo ricchi come i ragazzi di oggi, che sono tutti uguali, gli stessi tatuaggi, lo stesso taglio di capelli. Li sfido a essere ancora amici fra 30 anni, come io con Cabrini e Tardelli. Quando entravamo nell’ufficio di Boniperti per firmare il rinnovo, la cifra era già stata scritta da lui sul contratto, ed era quella. Al calcio ho lasciato tutto, dal punto di vista fisico e dal punto di vista morale». Tre menischi asportati quando non erano interventi di routine, due anni.