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 2014  maggio 23 Venerdì calendario

QUEL CHE PENSO DEL VOSTRO MUNDIAL


Madrid. Nel sole dell’aspra meseta madrilena, il centro sportivo di Valdebebas sembra la base di Los Alamos. O l’area 51 nel deserto del Nevada. All’entrata, controlli occhiuti e un certo clima di segreto. Commisurato a un club che ha la Real Corona nel nome e sul blasone. Non bastasse, Carlo Ancelotti torna dall’allenamento in compagnia dell’ambasciatore italiano Pietro Sebastiani. Entrando nell’ufficio del mister dai finestroni che confinano coi prati da gioco, ci diciamo subito, oddìo, vuoi vedere che nelle risposte ci diventa diplomatico pure lui? Ma no, è il solito Carletto. Sardonico, furbetto, però loquace, generoso in tempo, aneddoti, memorie. Le ha già ficcate in due libri (divertenti). Eppure legge poco: «Me ne manca il tempo» ammette senza troppo rammarico. In compenso si abbuffa di cinema («Almeno un film al giorno»). E non solo di quello. Da quando è arrivato in Spagna, un derby ufficioso lo appassiona. Tutto suino: Pata Negra vs. Culatello. Chi la spunta? Ce lo dirà a fine intervista. Adesso ha ben altro derby per la testa. Domani, in finale di Champions contro l’Atletico, si gioca la stagione. E forse pure la panchina al Real. Anche se dice: «No, no. Comunque vada, resto». Vabbè, cambiamo argomento. Parliamo di Mondiali. Favorite?
«Le solite. Brasile, Spagna, Germania, Argentina, che però davanti è fortissima ma ha qualche debolezza in difesa». Gli spagnoli vanno a difendere il titolo con un gruppo un po’ invecchiato.
«Può darsi. Ma avercelo. Trenta convocati come quelli perfino il Brasile se li sogna. Xavi, Iniesta, Busquets, Alonso, sono ancora molto affidabili. Quanto alla mancanza di attaccanti, mi pare un problema relativo. Quattro anni fa hanno vinto il Mondiale senza un centravanti». Tra le outsider da tenere d’occhio?
«Il Cile. E soprattutto il Belgio. Ha fatto ottime qualificazioni». Mentre l’Italia? Ricorda... Quel Paese che un tempo giocava al calcio mica male. E magari vinceva.
«Beh, non partiamo favoriti. Difensivamente siamo messi bene e anche a me tà campo abbiamo grande qualità ed esperienza. Il grosso punto interrogativo resta l’attacco: l’enigma Balotelli, Rossi reduce da un infortunio... Certo, ci sono i giovani: Immobile, Destro, Insigne... Vedremo come si comporteranno».
Pure in Europa siamo missing.
«Incredibile. La Juve s’è fatta sfuggire l’occasione di giocare una finale Uefa a Torino. Non me lo spiego». E invece ce lo deve spiegare. Ci dia tre ragioni di tanta decadenza nazionale.
«Un clima inquinato da violenza, eccesso di passione. Stadi vecchi, poco invitanti, spesso vuoti. In queste condizioni, sul calcio si mettono meno soldi. E cala l’attenzione. Cala tutto. Intendiamoci: in Italia i diritti tv sono gli stessi che altrove. Ma la grande differenza la fanno gli introiti stadio». L’indotto di un match.
«Intorno a una partita la gente mangia, beve, compra... Figuriamoci: dallo stadio, una società come il Milan incassa ogni anno 25 milioni di euro. Il Manchester United o le tedesche superano i cento. È su questo tipo di calcio europeo che il mondo asiatico è interessato a investire. Lo Shalke 04 vende 30 mila litri di birra a ogni incontro...». Da noi gli animi sono già abbastanza eccitati senza bisogno di additivi.
«Ok, ma pensi pure al merchandising. In Inghilterra ormai non vai a vedere la partita se non hai su la maglietta della tua squadra». In Italia il tifo è di nuovo diventato far west. Lei come lo ha visto cambiare in quasi vent’anni da allenatore?
«Si è incattivito. Ma il fatto è che non l’ho visto cambiare: siamo ancora fermi ai problemi di allora. In Spagna o Inghilterra, dove ormai non senti manco un cane abbaiare allo stadio, i gruppi non hanno lo stesso potere di pressione che da noi». Se lo sono preso grazie a qualche complicità.
«Certo».
Però, anche a Parigi, mentre lei allenava, se le son date di brutto. E c’è scappato l’ammazzamento.
«Già. E il Psg ha risolto la questione facendo una cosa semplicissima: biglietti nominali venduti allo stadio e per nessuno il diritto di scegliersi il posto dove vedere la partita».
Tifo e capitalismo a parte, lei va ripetendo che il declino italiano è anche legato ai dogmi cui restiamo devoti: gioco sparagnino, opportunistico, lento. Nell’epoca del turbo-pallone.
«In Nazionale, Prandelli cerca di costruire un calcio più propositivo. Ma per il resto, è vero, noi rimaniamo tattici. E il tatticismo rallenta il ritmo». Però qui in Spagna – dove velocità, possesso palla e spettacolo sono religione – lei ha reintrodotto nel suo Real il contropiede. Perfido e italianissimo. Anche così avete liquidato il Bayern di
23 MAGGIO 2014
Guardiola. È la prova che la metafisica barcellonese del toque, del calcio dai mille passaggi filamentosi, è al crepuscolo? O comunque non è esportabile?
«Al Bayern gli abbiamo fatto male. Molto male (ghigna felino). Però nel calcio non c’è mai un unico modulo vincente. A Monaco siamo passati anche perché loro sono arrivati scarichi. Avevano già vinto il campionato tre mesi prima – e, occhio, col metodo Guardiola. Ma non avevano energie per giocare una semifinale di quel livello. Detto questo, quella filosofia di gioco può piacere o non piacere».
A lei piace?
«No. Mi annoia mortalmente. Però è difficile giocarci contro. Ti fanno correre un sacco e prendi la palla poche volte. Ci vuole una pazienza infinita. Cerco di motivare i miei dicendogli: ricordatevi che quando gli rubate il pallone avete sempre una possibilità di beccarli scoperti. Se no è frustrante».
In azzurro ha fatto due Mondiali, Messico 86 e Italia 90, ma giocando niente o poco.
«Sì, preferisco ricordare Usa 94, quand’ero assistente di Sacchi». Ma si è divertito più giocando o allenando?
«Zero dubbi: giocando».
Voi ex dite tutti così. Perché?
«Da giocatore la tua responsabilità è individuale. Da allenatore, collettiva. Pesa molto di più». Tante rogne, poche soddisfazioni? Suvvia...
«Una partita, figuriamoci una finale, un allenatore può solo perderla. Se si vince, vincono i giocatori. Il calcio è fatto così». Ha detto che allenare la Nazionale non rientra tra i suoi obiettivi perché preferisce un rapporto continuativo coi giocatori. Posizione definitiva o negoziabile?
«Per ora la penso così. Ma se me lo chiedessero... (altro ghigno) Beh, se ne potrebbe discutere». Dopo il tornado Mourinho, lei ha riportato bonaccia nello spogliatoio madrileno. Pax ancelottiana. La chiamano El hombre tranquilo, il Pacificatore. Ma
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Carlo Ancelotti, allenatore del Real Madrid, e Pep Guardiola, collega al Bayern Monaco. L’incontro è prima della semifinale di Champions. Vincerà il Real
qualche balsamica incazzatura se la concederà ancora.
«Beh, quando due settimane fa abbiamo perso la Liga sono sbottato». Facendo volare tavoli e sedie come le capitò al Milan?
«No, l’ultima rabbia di quel tipo m’è presa col Psg. Ho dato un calcio a uno scatolone e Ibrahimovic se l’è beccato in faccia. Ma era vuoto. Mi mandano in bestia la sufficienza, la superficialità. Comunque il Real è una squadra divertente. Avete visto gli allenamenti: c’è molta competizione, i giocatori si sfottono». In effetti, è tutto un simpatico Hijoputa! Cabròn! E come va col suo secondo, Zidane?
«Zinedine è uno molto umile, percio impara tutto con estrema facilità. Conosce benissimo l’ambiente. Soprattutto i giovani. Tutti parlano del Real di Ronaldo e Bale, ma guardate che siamo gli unici in Europa ad aver portato in prima squadra cinque giocatori del settore giovanile».
A proposito: stato di salute dei vivai italiani?
«La qualità è diseguale. Ma stanno crescendo. Vedi le nazionali giovanili coordinate da Sacchi. Il problema è che manca ancora la mentalità per dare spazio a quelli con possibilità».
Da allenatore ha avuto come grandi patron Agnelli, Berlusconi, Abramovic, lo sceicco Al Khelaifi e ora Florentino Pérez. Li metta in colonna dal meno al più invadente.
«Abramovic è quello che ho visto più di rado. Con lo sceicco ci si sentiva un paio di volte a settimana. Berlusconi e Florentino sono diversi: sono presidenti tifosi. Gli altri lo fanno per mestiere». Al Milan, prima di una grande sfida, caricava i suoi parlandogli di quant’è buono il bollito. Con quale ricetta ecciterà il Real per la finale di domani?
«Le finali sono le partite più facili da preparare. Non devi motivare i giocatori: si motivano da soli». Come se la vive Madrid?
«Bene. Città facile».
E gastronomicamente parlando?
«Non c’è male. È cucina poco elaborata».
Ma come, se non si fa che parlare dei rivoluzionari chef di Spagna.
«A me la rivoluzione non è che mi entusiasmi. Sapete, son venuto su a pane e salame. E poi a pranzo sto sempre qui. A differenza che in Italia mi hanno dato perfino un ufficio. Però la chiave di un centro allenamenti sono i campi. Varda che prati. A Parigi erano un disastro. A Chelsea stupendi. Infatti qui il giardiniere è inglese». Si mangia bene come a Milanello?
«No. È tutto a buffet. Però c’è la pasta...».
Veniamo al derby: Pata Negra o culatello?
«Culatello. Ma di misura: 1 a 0. Dopotutto, dobbiamo difendere o no il prodotto italiano all’estero?» dice con un’occhiatina all’ambasciatore.