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 2014  maggio 25 Domenica calendario

EUGENIO BORGNA

[Intervista] –

La prima cosa che viene in mente osservando Eugenio Borgna, mentre è ad attendermi alla stazione di Novara, è il suo spiccato senso di gentilezza. Nelle movenze dinoccolate di quest’uomo alto e asciutto, che flette lieve verso l’altro come un giunco, si coglie la disponibilità rara dell’ascolto. Ci fermiamo, vista l’ora di pranzo, a un ristorante gradevole e semivuoto: «Qui veniva Scalfaro», ricorda Borgna. E ho l’impressione di un altro tempo. Che è la medesima sensazione che provo nella casa di questo grande psichiatra: vasta, spoglia, ma anche sovraccarica di libri. Come congelata in un altro tempo. Forse più prezioso. Più intimo. Certamente meno duro e perfino più fragile. Proprio al tema della fragilità Borgna ha dedicato un libretto (La fragilità che è in noi, edito da Einaudi) ricco di considerazioni tenui. Intonate al pastello più che all’acido; alle sfumature più che ai tratti decisi. Ho l’impressione che il pensiero di quest’uomo si svuoti dell’aggressività necessaria in una società votata all’urlo e alla chiacchiera.
Cosa rappresentano le parole per un medico come lei?
«Le parole hanno un immenso potere. Ci sono parole troppo dure e violente. Troppo inumane. Che i medici, non tutti per fortuna, rivolgono al malato. E ci sono parole in grado di aiutare l’altro. Le mie parole sono state anche domande a me stesso e agli altri. Sono i dubbi e le incertezze che ho seminato lungo la mia lunga vita».
Che ha avuto inizio dove?
«A Borgomanero, a una trentina di chilometri da qui. Vi ho trascorso la mia infanzia e poi l’adolescenza. Interrotta bruscamente quando i tedeschi nel 1943 occuparono la nostra casa. Mio padre, avvocato, faceva parte della Resistenza. E noi, sei figli, con mia madre che teneva in braccio l’ultimo nato, ci avviammo a piedi verso la collina dove protetti da un parroco ci nascondemmo».
Quanto durò?
«Sei mesi. Tornammo per constatare che la casa era stata distrutta. A poco a poco la vita riprese. La scuola, poi il liceo, infine l’Università a Torino e la specializzazione a Milano nella prima clinica per le malattie nervose».
Perché quel tipo di scelta?
«Sulle orme paterne avrei potuto fare l’avvocato. O magari il letterato avendo divorato i libri della biblioteca di mio padre. Ma compresi, grazie anche alla letteratura e alla poesia, che occuparsi delle persone che stavano male poteva dare un senso più autentico alla mia esistenza».
Essere autentici è un dovere?
«Diciamo che avvertivo il desiderio di una verità più grande di quella che di solito osserviamo».
Mi faccia capire.
«Dopo un po’ che frequentavo la Prima clinica mi accorsi che esistevano due tipi di pazienti, ben distinti: neurologici e psichiatrici. Questi ultimi erano ignorati».
Perché?
«Si pensava che solo le malattie del cervello meritassero attenzione. Mentre a me interessava relativamente quel tipo di indagine. E fu attraverso quei pochi pazienti psichiatrici, tenuti ai margini, che scoprii un mondo di dolore e di sofferenza che mi parve più autentico di quello biologico e organicistico».
Non le bastava la verità clinica?
«No, desideravo toccare una verità più esistenziale. Non volevo l’oggettività del neurologo. Ero portato ad ascoltare la sofferenza e l’angoscia come aspetti di una soggettività più complessa. Avevo 32 anni e una libera docenza che mi dischiudeva le porte per una grande carriera milanese».
E invece?
«Decisi — tra lo sconcerto dei colleghi, dei superiori e degli amici — di accettare il posto di direttore del reparto femminile dell’ospedale psichiatrico di Novara. Quando entrai vidi all’esterno degli enormi giardini. Mi accompagnava un silenzio assoluto. E malgrado fosse inverno le finestre dell’ospedale erano spalancate. Con i pazienti che guardavano fuori».
Una scena irreale?
«Sembravano le marionette di un teatro dell’assurdo. Ma era niente rispetto alla situazione che trovai all’interno. Quello che vidi fu raccapricciante: i pazienti legati o rinchiusi in spazi asfissianti. Le urla e i lamenti. Era agghiacciante. Sembrava di essere in un carcere crudele e senza senso. So bene che oggi la situazione è cambiata, ma allora, nei primi anni Sessanta, fu sconvolgente constatare che c’erano esseri umani cui era stata tolta la dignità del vivere».
Come reagì?
«Provai una profonda vergogna. E al tempo stesso capii che avevo fatto la scelta giusta. Provai a cambiare la situazione. Aprii le porte e vietai l’uso dei letti di contenzione. Nessun paziente poteva più essere legato. Chiamai da Milano alcuni assistenti con i quali avevo lavorato e che avevano, come me, combattuto contro certi metodi».
Metodi comunque fondati su una lunga tradizione clinica.
«Certo. In quelle decisioni non c’era malvagità, ma tanto pregiudizio. Meglio: l’incapacità di capire veramente cosa si nasconde nella follia».
Non è facile trovare un varco per la comprensione.
«Non lo è finché ci si rifiuta di pensare alla schizofrenia come a una forma di esistenza. Certo diversa dalla nostra normalità, ammesso che esista, ma pur sempre esistenza vitale».
Lei dice: la schizofrenia è un mondo vitale. Cosa ha trovato in quel mondo?
«La schizofrenia è una delle forme di sofferenza più enigmatiche e strazianti che si conoscano. Si radica, per lo più, nella crisi esistenziale segnata dal passaggio dall’adolescenza alla giovinezza».
Si insinua nel mutamento degli orizzonti di vita?
«Esattamente. E può essere vista come un’anarchica e totale perdita di senso, oppure essere riconosciuta, compresa e utilizzata solo se si riesce a guardarla con un forte atteggiamento interiore».
Intende dire che ci si deve porre alla stessa altezza della malattia?
«Intendo dire che le radici della malattia sono esistenziali e non cliniche. E questa convinzione fa venir meno il rapporto asimmetrico tra medico e paziente».
Non il paziente.
«È vero. Ma con quella decisione è il medico a mettersi in discussione. Negli anni della mia professione ho capito che o si tenta di rivivere le cause del dolore e dell’angoscia degli altri, con tutte le risonanze e i rischi personali, oppure si è destinati al fallimento».
C’è un modo certo per registrare questo fallimento?
«La nostra maschera portata davanti a chi vive immerso in una condizione schizofrenica è immediatamente percepita nella sua insopportabile finzione e lontananza».
Cos’è per lei la guarigione?
«Parlando di guarigione in psichiatria c’è il rischio di sconfinare in una segreta violenza».
«Intesa in senso dogmatico la guarigione vorrebbe sanare tutto; risolvere ogni problema legato alla malattia».
E invece?
«La guarigione assoluta, in psichiatria, è solo un gesto totalitario. L’altra faccia, se vuole, del modo in cui la scienza dell’anima si è lungamente accanita sul corpo del malato. Senza pudore né dignità. Personalmente sono convinto che la guarigione avvenga anche quando i sintomi della malattia continuano a manifestarsi. Si può guarire continuando ad avere accanto quest’ombra».
Non ha mai temuto di essere lei stesso avvolto o sfiorato da quell’ombra?
«Mi sta chiedendo se il peso di ciò che ho sostenuto in questi lunghi anni mi abbia in qualche modo coinvolto più del dovuto?».
Sì. Nel senso che se si fa propria la sofferenza del paziente cade ogni distinzione.
«Viene meno la distanza e con essa ci si apre alla sofferenza dell’altro. Penso anche che la sofferenza sia una condizione necessaria alla via della conoscenza».
Ma è una domanda più diretta che vorrei farle e che spieghi la sua “posizione scomoda”: ha mai sofferto di depressione?
«Sì, è un universo che in alcune fasi della mia vita mi ha inghiottito».
E cosa si prova?
«Nella depressione si vive come sprofondati nel passato. Non si vede più il futuro né la speranza. Si blocca la percezione del cambiamento; si sprofonda nelle cose avvenute che non mutano mai. E poi affiora l’esperienza fiammeggiante della colpa: una delle ragioni del nostro strazio. Ma nei miei quarant’anni di manicomio ho imparato che ci sono tante forme di depressione a seconda dei nostri caratteri e delle nostre emozioni. Teresa di Lisieux vedeva nella malinconia il sentiero per conoscere Dio».
C’è un nesso tra psichiatria e misticismo?
«Ovviamente no se si considera la psichiatria solo una scienza positiva. Ma le esperienze mistiche ci inducono a riflettere sugli abissi dell’anima, sulle sue lacerazioni. E non può immaginare quante volte mi sia trovato davanti alle oscure notti dell’anima».
Si nota quasi un desiderio di ricorrere alla religione.
«Non alla religione in quanto tale. Ma a certe sue pratiche: voler camminare con l’altro, immedesimarsi nell’altro. Si parla tanto di etica. Dove pensa debba stare tra il cuore di ghiaccio e il cuore segnato dal dolore? Dalla sofferenza occorre uscire. Ma guai non averla mai provata in vita».
Crede in Dio?
«Credo in senso pascaliano all’idea del mistero. Non credo a un Dio razionale che ordina il mondo. Oltretutto, visti i risultati, sarebbe stato un pessimo architetto. Ciascuno deve fare bene il proprio lavoro».
E il suo, ora che non ha più l’ospedale?
«Continuo a dedicare parte del mio tempo ai pazienti. Senza di loro mi sarei trasformato in un piccolo funzionario. Decida lei se del bene o del male».
E il resto della giornata che fa?
«Leggo e scrivo i miei libri. È un’altra maniera di raccontare il dolore e le fragilità umane. A volte per mesi non riesco a scrivere. È come se il buio calasse in me. Durò a lungo dopo la scomparsa di mia moglie».
Cosa accadde?
«Soffriva di una malattia autoimmune. Se la trascinò per buona parte della vita. E provai spesso dolore e disperazione. Morì 14 anni fa. Era una psichiatra infantile. Con un carattere molto dolce. Ancora oggi ne avverto il vuoto».
Cos’è la mancanza?
«Qualcosa che ci accompagna per sempre e che cerchiamo disperatamente di mettere tra parentesi. Ma si può ingabbiare ciò che non avremo mai più?».
Le cose passano. Destinate come sono a finire. Soprattutto nell’orizzonte della vecchiaia.
«Muta la luce, non necessariamente la materia».
E la vecchiaia di uno psichiatra?
«Perché dovrebbe essere diversa da quella di un fabbro o di un insegnante di matematica? Conta molto il destino di come è stata la propria vita».
Destino è una parola impalpabile.
«Sono le migliori. Le meno usurate. Il destino non lo intendo come la macchina inesorabile del fato. È sapere ancora una volta leggere dentro di sé. Riconoscersi. Freud lo fece da giovane e da vecchio. Fino a quando le forze lo sorressero continuò a lavorare. L’importante è non farsi divorare dall’ homo faber. Solo così si ha più tempo per ascoltare».
Non teme il tempo della clessidra?
«Lo temo oggi come lo temevo da giovane. Ho sempre avuto la percezione acutissima dell’imprevedibile. Il morire era per me una possibilità immanente a trent’anni e adesso».
Citava Freud. Che rapporto ha con la psicoanalisi?
«Nessuno in particolare. È una grande esperienza culturale. Abbastanza inservibile per la schizofrenia».
Perché?
«Gli schizofrenici non possono raccontare i loro sogni perché non sognano. Servono altre strade. Altre parole. Starei per dire altri dolori. Sa una cosa che vorrei?».
Dica.
«Vorrei che non ci fossero più giorni muti e senza parole. Vorrei che anche quando il silenzio avvolgesse le nostre vite esso avesse la forma della dignità e non dell’indifferenza».

Antonio Gnoli, la Repubblica 25/5/2014