Stefano Batterzaghi, la Repubblica 25/5/2014, 25 maggio 2014
LA FABBRICA DEI GURU
C‘erano una volta i maîtres-à-penser. Ora a vivere felici e contenti sono invece i guru. Il significato letterale delle due espressioni basta a spiegarne la profonda differenza: dal magistero intellettuale si è passati a una forma di sacerdozio esotico: «guru», in indostano, significa prete o anche maestro, ma in senso spirituale. Il modello a cui si rifacevano gli intellettuali era quello del leader politico, con la firma degli appelli di protesta come forma di espressione dell’ engagement. Oggi invece gli intellettuali sono visti come figure carismatiche in termini pressoché religiosi: la loro parola deve avvincere, prima che convincere.
Potrebbe essere considerata allora una profanazione l’usanza di stilare liste di «pensatori influenti». Al referendum annuale del mensile britannico Prospect nel 2014 hanno partecipato settemila votanti e hanno indicato in maggioranza Amartya Sen, premio Nobel per l’economia e conosciuto nella natia India come «La Madre Teresa degli economisti». Assieme alla presenza di papa Francesco (al quinto posto) ciò non fa che confermare il sospetto che piuttosto che di pensatori di riferimento il mondo sia in cerca di guide spirituali. Ai primi tre posti, tre indiani, al quarto il cinese Mao Yushi. Europa quasi scomparsa, prevalenza netta di economisti (l’unico nome italiano presente fra i primi 50 è quello della fisica italiana Fabiola Gianotti). Amartya Sen primeggia anche nella classifica dei venticinque «pensatori del nuovo secolo del Nouvel Observateur , davanti a un variegato gruppo di filosofi (Judith Butler, Peter Sloterdijk, Alain Badiou). La differenza fra le due classifiche è che la prima è derivata da un referendum e non da una selezione redazionale e quindi manifesta con chiarezza il fenomeno per cui l’autorevolezza è oggi in funzione della notorietà. Prima era l’inverso ed è stato come passare dalla trazione anteriore alla posteriore.
Se Roland Barthes fosse stato un guru, lo avrebbero riconosciuto subito quando ebbe l’incidente stradale che poi gli costò la vita. Fu ricoverato in stato di incoscienza, non aveva documenti con sé, al personale dell’ospedale la sua faccia non diceva nulla: eppure era uno degli intellettuali francesi più noti al mondo. Il critico e scrittore Maurice Blanchot non era meno presente nel dibattito e nella formazione dell’opinione colta francese europea: eppure viveva ritirato, vedeva solo due o tre amici, stava chiuso in casa ad ascoltare lieder di Schubert e a cesellare scritti frammentari su silenzio e assenza e invisibilità. Nell’epoca della visibilità, sarebbe probabilmente del tutto sconosciuto. Oppure, chissà, accetterebbe di farsi applaudire al Festival della Letteratura di Mantova.
A inizio di maggio, infatti, il non indulgente filosofo Emanuele Severino ha partecipato a una puntata di Otto e mezzo di Lilli Gruber assieme al guru di Dagospia Roberto D’Agostino e non ci si è stupiti più di tanto. Ci va sempre anche Massimo Cacciari, del resto. Cantanti carismatici come Francesco De Gregori o Ivano Fossati un tempo facevano impazzire gli autori televisivi perché non accettavano mai di essere ospitati in tv o imponevano condizioni ardue (non dire nemmeno una parola, cantare solo canzoni nuove e non i loro successi storici): hanno poi cambiato atteggiamento.
Il processo di produzione intellettuale ha pure invertito la sua filiera. Le idee venivano in biblioteca, si esprimevano all’università, si depositavano in articoli e libri e viaggiavano in forma scritta. Ora vengono quando si scrive e si trasmettono poi per via orale, in festival e interviste tv, con rilanci frammentari tramite social network. La parola dei guru del pensiero non è quasi più separata dalla loro immagine e gli eventuali meriti scientifici si disperdono nel blob dello star system mondiale: fra le cento persone più influenti su scala mondiale, in un elenco stilato da Time magazine , spiccano innanzitutto nomi come quelli di Beyoncé, Serena Williams e Robert Redford.
Ci aveva insomma visto giusto l’artista Alighiero Boetti. Era ancora il 1968 e lui presentò una propria mostra sotto l’insegna: « shaman/ showman » . Il gioco di parole saldava il magico carisma dello sciamano all’attrazione del funambolo. E questo spiega perché, malgrado le apparenze, queste classifiche e liste (certamente un po’ deprimenti) non profanino proprio nulla: svelano anzi quanto indissolubile sia il legame tra carisma intellettuale e notorietà. La doppia platea dei maître à penser era costituita dal cerchio stretto degli studenti e da quello più ampio della parte colta della società: lettori di riviste culturali, frequentatori di librerie e biblioteche. Questo secondo cerchio oggi risulta schiacciato da quello, esterno e immenso, della cultura di massa, che applica codici di ricezione completamente diversi e privilegia l’intrattenimento sulla profondità, lo storytelling sull’originalità, l’emozione sull’analisi.
A cinquant’anni esatti dalla pubblicazione dell’attualissimo Apocalittici e integrati (1964) di Umberto Eco si potrebbe allora pensare che l’integrazione abbia stravinto, che nessuno possa più sottrarsi all’imperativo della visibilità (proprio mentre i segni dell’Apocalisse, peraltro, si moltiplicano). Ma poi è apparenza illusoria anche questa. Occorre infatti chiedersi quanto queste classifiche delle persone più influenti siano influenti a loro volta. Moltiplicano le vendite dei libri di quegli autori e quelle autrici, procurano loro ulteriori premi e inviti in occasioni ed enti di prestigio, elevano a potenza la loro visibilità, questo è certo. È più dubbio, invece, che la circolazione effettiva delle idee si svolga esclusivamente per i canali del mass marketing e che la loro penetrazione sia misurabile a colpi di sondaggio. Tra l’applauso al guru e la frustrazione dei professorini continua a esserci uno spazio di ricerca critica, un pubblico più selettivo, una possibilità di elaborazione che non sente un bisogno primario di visibilità. Da classifiche e valutazioni quantitative magari non appare. Però c’è.
Stefano Batterzaghi, la Repubblica 25/5/2014