Fabrizio Corallo e Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 25/5/2014, 25 maggio 2014
“HO POCHI AMICI, NON BADO AL DENARO E RECITO PER AMORE”
[Intervista a Laura Morante] –
Il Natale allora sì che era una festa vera: “Elsa, la sorella maggiore di mio padre, partiva da Roma e arrivava a Grosseto con una cesta carica di regali. Scaricava ai piedi dell’albero questi involucri senza nome perché voleva che i doni fossero assegnati democraticamente, con una lotteria. A casa eravamo tanti fratelli e lei non sapeva scegliere”. La sesta figlia di Maria e Marcello Morante, Laura, nipote di una scrittrice “che fumava molto, parlava in continuazione, guidava malissimo, amava il dialetto ed era così diversa da mia madre” nacque d’agosto, come la zia. “A Santa Fiora, sul Monte Amiata, dove la mia famiglia trascorreva i periodi di villeggiatura. All’epoca il termine vacanza, un’idea moderna, non esisteva. Si partiva per mesi. Era una seconda vita, l’estate”. A quasi 58 anni, dopo quasi sessanta film e una carriera cosmopolita declinata con gli sguardi di Amelio, Bertolucci e Resnais, Laura Morante è rimasta Bianca, la professoressa di francese della scuola Marilyn Monroe del film omonimo di Nanni Moretti, candidamente convinta che la follia del mondo non possa ferirla. Nel tempo ondivago di un mestiere stagionale: “La mia carriera è stata molto lunga e come è ovvio, piena di alti e bassi”, ha riscoperto il senso delle urgenze: “Un giorno vidi una tappa conclusiva del Tour De France in cui Laurent Fignon, molto indietro in classifica e già vecchio, andò in fuga senza alcuna ragione apparente. Al traguardo gli chiesero perché lo avesse fatto e lui rispose: ‘per bellezza’. Ho cercato di non dimenticarlo perché i gesti che valgono davvero non conoscono calcolo”. Così legge i copioni, riflette, frena gli istinti: “Con il tempo ho scoperto che dire no è liberatorio, me lo insegnò una mia figlia sorprendendomi” e si ricorda di quando rifiutare era meno di un’ipotesi: “Non posso evocare una povertà dickensiana, ma all’inizio non avevo proprio una lira. A Roma dormivo in una pensione clandestina, piena di studenti dell’Isef. Erano più grandi e non mi prendevano sul serio. L’ostello era gestito da una ex ballerina in vestaglia dal passato lievemente equivoco. Portava un collare, aveva un amante più giovane e l’abitudine di comprare sacchi di pane che lasciava nei corridoi. Io uscivo di soppiatto, attentavo al bottino e mi chiudevo in camera a mangiare. Quando mi trasferii finalmente in una casa, venne una giornalista a intervistarmi. Si guardò intorno perplessa, soppesò la miseria e poi mi chiese: ‘Ma lei abita qui per motivi politici?”. Roma era enorme. Rispetto a Grosseto, dove ero venuta su, un altro universo.
Quando abbandonò la Maremma?
Ero diventata da poco maggiorenne. Recitavo a teatro, ballavo, non pensavo al cinema. Grosseto era l’ultimo avamposto cittadino a protezione di una campagna senza confini traversata da ulivi, terreni e grano piegato dal vento. Dietro casa, nel quartiere della Barbanella, appena sorto, avevamo una fattoria del ‘700. Accompagnavo a passeggiare nei campi la bisnonna cieca di una mia compagna di classe. C’erano ritmi semplici, riti consolidati, lussi relativi. Il mare era un’astrazione.
Non ci andavate mai?
Forse un paio di volte in vent’anni, sufficienti per vedere Castiglion della Pescaia e Brigitte Bardot all’Isola del Giglio. Ero bambina. Lei passava come una dea, indifferente a tutto, con la camicia arrotolata sotto al seno, tra due ali di folla adorante. Con il mare, che rimpiango disperatamente, non ho fatto pace. Ancora oggi, con somma frustrazione, non so nuotare. Ma in spiaggia, se non vai con la famiglia, vai con gli amici. E io amici non ne avevo.
Dice sul serio?
Ero molto solitaria. Timida. Covavo rapporti cechoviani. Promesse metafisiche di domani che non sarebbero arrivati. Era tutto un “faremo”, ma di quel che avveniva veramente tra le persone sapevo pochissimo. Quando la mia unica amica si fidanzò lo venni a scoprire per caso. E tra noi c’era un affetto fortissimo. Reale.
In famiglia invece?
Mia madre una disadattata totale. Una donna originale e affascinante che disprezzava sinceramente successo e scalata sociale. Se uno ce la faceva, secondo lei, c’era sempre sotto qualcosa di sospetto. Le piaceva spiazzare e ribaltava il senso comune con il paradosso: “Che assurdità – sosteneva – fare regali a un bambino che è stato promosso. Chi ha superato l’anno scolastico il suo premio l’ha già avuto, il regalo dovrebbe averlo chi è stato bocciato”. E mentre lo diceva era seria. Serissima.
E suo padre Marcello?
Avvocato e giornalista di ammirevole rigore, era impegnato politicamente. Severo, molto indipendente e non di rado autoritario. In famiglia era un tiranno, ma non urlava mai. Le uniche eccezioni le riservava a sua sorella. Al telefono erano guerre dialettiche e tra le stanze risuonavano grida belluine. Si volevano bene, ma avevano un rapporto un po’ più che conflittuale. Con Elsa, comunque, da nipote prediletta e per un breve intervallo, andai anche a vivere. Durò poco. Ero sonnambula e mi mancava mia madre. Venni rispedita rapidamente indietro con un presepe nella borsa. Costava quasi ventimila lire. Lo conservo gelosamente.
Ed è ancora sonnambula?
Ho sempre avuto problemi con il sonno. E ho un’attività onirica fatta di immagini precise. Rimandi. Convergenze. Con i differenti psicanalisti che si sono succeduti negli anni al mio fianco ne ho discusso spesso.
In analisi è entrata presto?
Avevo 38 anni. Soffrivo di attacchi di panico. Mi ci mandarono quasi per forza. Da allora sono entrata e uscita da studi che si somigliavano tra loro, senza mai avere la tentazione di disconoscerli o il coraggio di rinnegare il percorso intrapreso. In un mondo in cui nessuno ascolta nessuno, sdraiarsi per un’ora su un lettino e raccontare qualcosa di sé è consolante. Potrei farlo anche con i giornalisti, ma l’analista ha un libricino segreto che poi ripone nel cassetto, mentre i giornalisti pubblicano le tue parole. Ti rileggi e dici: “Ma l’ho detto proprio io?”. Non c’è occasione in cui non mi penta.
E all’analista che sogni racconta?
Sto recitando. Vesto un saio, cade una pioggia tenue e da sospetta strega condannata al patibolo mi sento molto compresa nel ruolo. Il regista mi avverte: “Attraversando il cortile, prima che gli sgherri ti conducano dal boia, chìnati nei pressi dell’altare eretto alla Vergine Maria”. Io eseguo, mi avvicino con intensità alla statua della Madonna e inizio a piangere: “Perdonami, faccio un lavoro ignobile, non faccio altro che fingere”. A quel punto lei esce dal quadro votivo, sorride e mi sussurra: “Non preoccuparti, sono un’attrice anch’io”.
Non è vero. Ci dica che se l’è inventato.
È verissimo. Mi svegliai ridendo, poi l’analista freddò il mio entusiasmo: “Si rende conto che è un sogno drammatico?”.
È drammatico anche l’ambiente in cui si è trovata a lavorare?
Non sono una persona cinica né un’attrice ambiziosa. Rimango legata a un’idea di lealtà, a un principio di condivisione, allo scambio proficuo tra colleghi, alla possibilità di migliorare insieme. Sui set in cui sono stata, ho sempre cercato l’affetto dei registi. Non puoi pretendere di essere amata da tutti, ma al semplice dato professionale non mi sono mai piegata. Se è solo un lavoro senza sentimento, preferisco fare altro.
E tra i suoi omologhi qualche amico l’ha trovato?
Pochi rapporti profondi, soprattutto in Francia. Qui ho un’amicizia fraterna con la montatrice Esmeralda Calabria e con Gianni Amelio che ha un carattere non semplice, ma un cuore vero, una generosità straordinaria e una curiosità per l’altro del tutto disinteressata. Negli anni in cui eravamo poverissimi e cenavamo insieme ogni sera, gli feci una memorabile scenata di gelosia. Mi pareva mi trascurasse per Giuliana De Sio. Ero possessiva, emotiva. Lo sono sempre stata.
Lei ha recitato con Nanni Moretti in film per lui molto importanti. Vi frequentate ancora? Siete amici?
Direi che siamo come fratelli. È un legame soggetto a lunghi periodi di latenza. Un legame che riemerge in periodi particolarmente cruciali o significativi, difficili o felici. Un legame che in un certo senso non ha bisogno di essere alimentato per poter continuare a esistere e che in più di trent’anni ha mostrato una notevole resistenza agli urti e alle divergenze. Ciò non toglie che a volte abbia voglia di strangolarlo.
Pregi e difetti di Nanni?
Pregio, l’intelligenza. Difetto, la vanità.
Le capita spesso di rinunciare a qualche progetto?
Con il denaro ho un rapporto che definire astratto è un eufemismo. Mi preoccupo solo quando manca veramente, così nella scelta di un progetto , almeno fino a quando i conti non virano al rosso, non penso mai a quanto sarò pagata. Poi a un certo punto i soldi finiscono, bisogna pagare l’affitto e magari per non aver voluto interpretare una sceneggiatura mediocre, stupidamente, presto volto e voce a un copione bruttissimo. Mio marito ancora mi rimprovera per un rifiuto di qualche anno fa. Mi offrirono una cifra enorme, il progetto non mi convinceva, rinunciai. Ma al futuro prossimo, in termini pragmatici, non sono mai riuscita a pensare. Penso sempre che accadrà qualcosa di buono. Mi è rimasta l’epica materna, il suo motto: “Qualche santo ci aiuterà”. Magari non succede, ma diversamente non so fare.
Carmelo Bene la adorava. “Com’è questa ragazzina che lavora con lei?” gli chiesero. “È l’unica persona che abbia incontrato negli ultimi vent’anni” rispose.
Mi ammoniva: “Ricordati che sei una principiante. Talentata, ma pur sempre principiante”. Mi provocava: “Come donna fai schifo” diceva “ma come ragazzo sei fantastico”. Mi licenziava e mi riassumeva più volte a mezzo telegramma, gli intentai una vertenza sindacale e vinsi. Avevamo una sintonia calorosa perché Carmelo non era cattivo, ma crudele, una categoria estetica del tutto differente. Voleva vedere fino a che punto poteva arrivare, voleva vederti morto. Non si metteva in competizione con nessuno e amava soltanto chi sapeva resistergli. Ma a quel punto, amava davvero. Il solo fatto che mi opponessi al suo dominio, lo faceva ridere. Riccardo Terzo, Amleto. Insieme abbiamo fatto un pezzo di strada bellissimo. Iniziai a lavorare con lui quando ancora facevo la ballerina. Dormivo un’ora e mezza a notte, ero distrutta, ingrassai undici chili.
Ci ha detto che non voleva fare l’attrice.
Amavo troppo la danza. Nella Marchesa di O… di Kleist c’è uno scambio che racchiude tutto. “Perché quando eri disposta ad accettare chiunque, mi hai respinto come fossi un demonio”e lei, pronta: “Non ti avrei mai vista come un demonio se la prima volta che ti ho scorto non ti avessi visto come un angelo”. Della danza avvertivo l’aura quasi mistica, i libri mi rapivano, il cinema mi lasciava indifferente. Nell’abbandonare la danza deve aver avuto il suo peso anche la psiche. Andai sul palco e mi resi conto di aver ballato meglio che in qualunque altra occasione. In camerino tutti a darmi della pazza: “Sei bravissima, perché te ne vai?”. Era impossibile da ammettere, ma avevo ballato così bene solo perché sapevo che stavo per dare l’addio. Conoscere le priorità è fondamentale.
Le riconosce con facilità?
La gravidanza per esempio mi dava una certa serenità. Sai che c’è una priorità assoluta e innegabile e ti metti quieta. Nella vita di tutti i giorni è più complicato. È tutta una gara: “Viene prima questo o quest’altro?”. Scegliere è una fatica. Una nebulosa.
Per anni ha visto mortificare il suo estro comico.
Benno Besson, l’allievo di Brecht, un maestro, ci diceva sempre la stessa cosa: “Siate seri, altrimenti il pubblico non ride”. La commedia che ammicca al pubblico mi fa orrore, ma in assoluto non esiste nulla di più pulito della commedia. Una forma espressiva onesta in cui non c’è confusione tra recitazione e simulazione. La preferisco al dramma che pure ho interpretato spesso.
Va al cinema?
Ho visto l’acclamato Alabama Monroe, tutta una manipolazione immorale, ripugnante, ben fatta che è ancora peggio. Intorno agli elementi, per farsi sentire, bisogna fare silenzio. Giocare di sottrazione. Se riproduci il caos della vita devi farlo bene, altrimenti molto meglio la vita che almeno è vera.
La accusano di difettare in diplomazia. Ricorda la polemica sui Parioli? Qualcuno sostenne che lei si vergognasse di abitarci. Nelle interviste descriveva viali alberati e tranquilli evitando accuratamente di citare il quartiere in cui viveva.
Lo dicevo autoironicamente, dando voce a un riflesso adolescenziale, a un’eredità degli anni ‘70, al tempo in cui i Parioli rimandavano a un’idea di destra estrema e a un’oasi da cui quelli di sinistra era bene girassero alla larga. Mi accorsi che io e le mie figlie, quando ci chiedevano “dove abitate?” ci aggrovigliavamo in spiegazioni farraginose e confuse e provai a riderci su. Si offesero moltissimo abitanti e frequentatori occasionali. Ora mi sono liberata, dico tranquillamente dove vivo anche se magari dopo quest’intervista mi toccherà emigrare.
Le piacerebbe fare un film sull’Italia di oggi?
Non credo nei messaggi, né nei monologhi per voce sola dell’odierno fast food artistico. Un film sull’Italia di oggi nascerebbe già vecchio. Un minuto fa è già ieri. Dirigerò una commedia femminile con Piera Degli Esposti, Marco Giallini, Silvio Orlando e Donatella Finocchiaro. Si sarebbe dovuta chiamare Assolo. Abbiamo scoperto che il titolo esisteva già, lo cambieremo. Ci ingegneremo. Da piccoli sapevamo come fare.
Racconti.
Un anno in vacanza incontrammo una famiglia di svedesi. Erano gli anni ’60 e gli svedesi erano un manifesto iconografico. A fine pasto ci mettemmo a cantare in una piazza piena di vecchietti e a un certo punto qualcuno intonò Bandiera Rossa. Uno dei miei fratelli la conosceva e si unì al coro. Dal gruppo si staccò un anziano, tirò fuori dalla tasca mille lire e gliele diede. “Bravo figliolo”. Esistevano ancora i comunisti, ma l’innocenza era un concetto relativo. I bambini, sugli affari del mondo, avevano già capito tutto.
Fabrizio Corallo e Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 25/5/2014