Stefano Feltri, Il Fatto Quotidiano 25/5/2014, 25 maggio 2014
SCANDALO PIKETTY IL NUOVO MARX CHE TRUCCAVA I CONTI
Ha dato un’aggiustatina ai numeri quando i risultati non erano coerenti con la sua tesi, qualche volta ha fatto pasticci scambiando un anno per l’altro, ha messo insieme dati tra loro non omogenei, il suo libro è impreciso e quindi le sue conclusioni poco rilevanti. La breve carriera di Thomas Piketty come intellettuale più pop e famoso del mondo sembra finita ieri, con l’attacco del Financial Times: due giornalisti - Chris Giles e l’italiano Ferdinando Giugliano (che ha 28 anni) - hanno rifatto i conti alla base del libro più venduto di Amazon, il saggio da 400 mila copie di Piketty Il capitale nel XXI secolo, che quando è uscito in inglese è diventato un best seller grazie soprattutto alla recensione entusiastica del premio Nobel Paul Krugman. Ma anche l’Economist lo ha definito “più grande di Marx”.
Un anno fa lo sconosciuto economista Thomas Piketty, 43 anni dell’università parigina EHESS, pubblica in Francia un libro che sostiene una tesi forte: la disuguaglianza nel mondo non sta diminuendo, anzi, siamo tornati a un capitalismo ottocentesco come quello dei romanzi di Jane Austen e Honoré de Balzac dove le fortune si ereditano e non si guadagnano, solo le grandi guerre del Novecento hanno livellato i punti di partenza dando l’illusione di una più equa distribuzione della ricchezza, poi tutto è tornato come prima. È un meccanismo inevitabile perché il rendimento del capitale è sempre maggiore della crescita dell’economia reale. E, per definizione, i ricchi hanno più capitale dei poveri. Servirebbe quindi una sorta di patrimoniale globale che tolga ogni anno qualcosa ai più abbienti, per evitare un accumulo di risorse che paralizza l’economia. Tesi già sentite, ma che per la prima volta sembravano aver trovato una base scientifica inattaccabile nel lavoro di Piketty che si appoggia su una enorme serie di dati che ricostruiscono la distribuzione della ricchezza per centinaia di anni. Il Financial Times ha fatto quello che bisognerebbe sempre fare con i lavori scientifici: ha preso i dati su cui si basa lo studio (messi a disposizione dallo stesso Piketty) e ha controllato, forse con una punta di acrimonia dovuta alla diversa collocazione sullo spettro del dibattito economico, visto che il FT resta l’ultimo baluardo intellettuale, con l’Economist, di un approccio liberale al capitalismo e alla finanza. I due giornalisti hanno trovato errori di trascrizione (Piketty copia un dato del 1908 al posto di quello del 1920), poi tratta in modo diverso lo stesso tipo di dati sulla disuguaglianza di ricchezza al momento della morte se riferiti a epoche diverse. E, quando analizza la Gran Bretagna, “inspiegabilmente aggiunge 26 punti percentuali alla quota di ricchezza dell’1 per cento più ricco per il 1870 e 28 punti per il 1810”. Il professor Piketty replica con una lettera: non nega le imprecisioni, anzi, ostentando il tipico distacco dello scienziato , si rallegra che i giornalisti del Financial Times abbiano approfittato dei dati che lui ha messo a disposizione del pubblico, “ma sarei molto stupito se questi miglioramenti influenzassero in modo sostanziale le conclusioni sulla distribuzione della ricchezza nel lungo periodo”. Quel che è certo è che da domani le vendite di Piketty rallenteranno (chissà come sono disperati alla Bompiani, la casa editrice che si era aggiudicata a caro prezzo i diritti della traduzione italiana) e il cachet per le conferenze dell’economista francese si ridurrà parecchio.
Crolla un pilastro intellettuale della sinistra, così come lo scorso anno si era sgretolato quello della destra: Thomas Herndon, Michael Ash e Robert Pollin avevano rifatto i conti del più influente studio che giustificava l’austerità, firmato da due super economisti come Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, dimostrando che era pieno di errori: “Se calcolato correttamente, il tasso di crescita reale con un debito superiore al 90 per cento del Pil è 2,2 per cento e non 0,1 come nel paper di Rogoff e Reinhart”. Colpa, anche in quel caso, di una certa disinvoltura coi dati e di alcuni errori pratici nell’uso di Excel per le tabelle. Tradotto: il dogma dell’austerità, secondo cui bisogna ridurre deficit e debito per mettere le basi di una crescita più solida in futuro, aveva un fondamento scientifico fragile (e le politiche economiche basate su quei numeri, quindi, ora sono più difficili da giustificare).
Su Piketty, come su Reinhart&Rogoff, il dibattito continuerà: gli errori nei loro calcoli lasciano aperte le questioni affrontate, non implicano che le loro tesi siano completamente false. Semplicemente che non sono state dimostrate correttamente. E la ricerca deve proseguire. A voler essere ottimisti si può vedere in questi scandali accademici una evoluzione vitale della scienza economica: finalmente qualcuno osa mettere in discussione il principio d’autorità, anche uno studente di dottorato può verificare il lavoro di un premio Nobel, parlano i numeri e non i curricula. Piketty e Reinhart&Rogoff sono vittime del progresso scientifico.
C’è un problema: prima di scrivere un best seller, Piketty ha pubblicato per anni i suoi studi su autorevoli riviste, ha tenuto conferenze e corsi universitari, idem Reinhart & Rogoff. Perché nessuno ha controllato prima? Non dovrebbe esserci una revisione attenta dei colleghi prima di decidere la pubblicazione? La verifica dei dati è riservata, evidentemente, soltanto agli studi che finiscono in prima pagina.
Twitter @stefanofeltri
Stefano Feltri, Il Fatto Quotidiano 25/5/2014