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 2014  maggio 25 Domenica calendario

MILANO LA GUERRA DELLE TOGHE IN NOME DI POTERE E CORRENTI


È difficile da ammettere, dopo che per vent’anni la procura di Milano è stata il punto di riferimento per la giurisdizione nel nostro Paese: ma lo scontro in corso esiste, è profondo e ha ragioni complesse che non possono essere ridotte a liti di cortile, da una parte, né, dall’altra, a un attacco politico della “destra” alla “sinistra”. Certo, c’è chi ne approfitta e ne approfitterà per ragioni politiche (il fronte berlusconiano) o per convenienze processuali (imputati come Roberto Formigoni), ma questo è sempre accaduto e sempre accadrà: guai se non si potesse elevare una critica e anche aprire uno scontro, con la motivazione che altrimenti “l’avversario ne approfitta”. “Taci, il nemico ti ascolta” non è uno slogan che una democrazia può esibire a cuor leggero, il “cui prodest” non è mai un buon argomento per comprendere davvero chi ha ragione in un conflitto. E allora: che scontro è quello in corso dentro la procura di Milano?
NON È UNA LITE FRA BUONI E CATTIVI
Un primo elemento di risposta permette di sgombrare il campo dalle ipotesi più inquietanti. A Milano non c’è una gara tra “buoni” e “cattivi”, tra “giusti” e “insabbiatori”. Non è in corso una contesa tra chi vuole fare le indagini e chi le vuole tenere nel cassetto. Qui le indagini si fanno, e si continuano a fare, anche nei confronti di indagati eccellenti, come hanno voluto ribadire le 62 firme di pm raccolte sotto il documento promosso da Armando Spataro e Ferdinando Pomarici. Silvio Berlusconi, ex presidente del Consiglio, è stato condannato definitivamente per truffa fiscale e in primo grado per concussione e prostituzione minorile. Roberto Formigoni, ex presidente della Regione, è sotto processo per corruzione e associazione a delinquere. Le indagini sono state condotte (spesso con successo) da magistrati che oggi si trovano sui due fronti opposti. La contesa è tra magistrati che le indagini le fanno e le vogliono fare, l’argomento del contendere è semmai come farle al meglio e quali siano i metodi più giusti per ottenere i risultati migliori.
QUELL’INDAGINE ”SCIPPATA”
Il procuratore aggiunto Alfredo Robledo sostiene che le scelte del suo capo, Edmondo Bruti Liberati, abbiano dato vita a disparità di trattamento tra i cittadini di fronte alla legge. Ma gli muove accuse e critiche di tipo e peso diverso. Un primo campo è quello della eccessiva discrezionalità con cui il procuratore assegnerebbe i fascicoli, fin quasi a sconfinare nell’arbitrio. Il caso Ruby riguarda reati sessuali (prostituzione minorile) e il più grave reato di concussione: è dunque indiscutibilmente di competenza del dipartimento che si occupa della pubblica amministrazione (guidato da Robledo). È stato invece sottratto al coordinamento di Alberto Nobili e assegnato a Ilda Boccassini, che guida la Dda, ossia il dipartimento antimafia. Bruti Liberati lo spiega così: è arrivato a Boccassini perché nei mesi cruciali dell’indagine, nel 2010, è passato dal dipartimento di Nobili alla Dda il sostituto che aveva avviato l’inchiesta, Antonio Sangermano. Una spiegazione un po’ debole: di solito è il capo che “attira” il sostituto e non viceversa. È anche indubitabile che nell’inchiesta cosiddetta Expo non ci sia neppure una traccia di organizzazioni mafiose. Eppure Boccassini, a partire da uno spunto iniziale che aveva a che fare con indagini di ’ndrangheta, è rimasta la co-titolare della più clamorosa delle indagini sull’esposizione universale 2015. In questi casi, appare evidente che il capo si fida maggiormente di alcune persone (oltre a Boccassini, l’altro aggiunto Francesco Greco, coordinatore del dipartimento sui reati societari) con cui sa di poter discutere e decidere insieme le scelte processuali. Sa anche che con Robledo, invece, i margini di confronto sono ridotti al minimo, per questioni culturali, caratteriali, personali. Cerca dunque di far arrivare i dossier più delicati su altre scrivanie. E questo gli è permesso, se non sconfina nell’arbitrio, dall’ordinamento giudiziario che dopo la riforma Castelli-Mastella riduce l’autonomia del singolo sostituto procuratore (molto più ampia ai tempi di Mani pulite, fino alla gestione del procuratore Manlio Minale) e rende di fatto gerarchico l’ufficio di procura. C’è un altro argomento su cui c’è scontro: i criteri con cui determinare la data d’iscrizione nel registro degli indagati. Inchiesta sulla crisi finanziaria del San Raffaele: nel luglio 2011, sostiene Robledo, la procura aveva già in mano elementi che avrebbero dovuto portare all’iscrizione del faccendiere Pierangelo Daccò e del presidente Formigoni. E non per reati finanziari (di competenza del dipartimento di Greco), bensì per corruzione (di competenza del dipartimento di Robledo). Erano emersi non da articoli di stampa, come controbatte Bruti (riferendosi a un pezzo di Mario Gerevini e Simona Ravizza apparso sul Corriere della sera il 25 luglio 2011), ma da un interrogatorio del 26 luglio di Danilo Donati, collaboratore di don Luigi Verzè e di Mario Cal, poi confermato da un interrogatorio del 3 settembre di Stefania Galli, segretaria di Cal. Già in un decreto del 27 luglio 2011 della pm Pedio, del resto, era scritto che “il quadro complessivo che si va delineando porta all’individuazione di flussi finanziari da e per l’estero con specifico riferimento alla Svizzera e a fiduciari ivi operanti, attraverso i quali sono state costruite e gestire provviste illecite, parte delle quali destinate al pagamento di tangenti”. Eppure, sottolinea Robledo, Daccò (il “regista” di quei flussi finanziari) e Formigoni (il presunto beneficiario dei suoi “regali”) sono stati iscritti nel registro degli indagati per corruzione aggravata soltanto un anno dopo, il 14 giugno 2012. Questo, ribadisce Robledo, intacca il diritto alla difesa degli indagati. È una lunga querelle, quella su quando si deve iscrivere un indagato. Il codice prescrive l’iscrizione immediata, appena emerge il nome di una persona da indagare, e da quel momento fa partire il contatore di sei mesi per le indagini preliminari.
LA GESTIONE DEI CASI DELICATI
Ma la pratica è più complessa: le procure tendono a fare le iscrizioni quando hanno in mano elementi più concreti di semplici sospetti. Non esiste un criterio automatico che permetta di dire: iscrivi adesso. Altre accuse di Robledo a Bruti sono più sostanziali. Gli imputano una gestione “politica” della procura, con tempi e modi delle indagini non determinati da esigenze giudiziarie e processuali, ma suggeriti da cautele, accortezze, retropensieri; o imposte da accadimenti tutti fuori dalle indagini. Non senza contatti e telefonate con il Colle più alto, che resta per Bruti Liberati un punto di riferimento importante e diretto. Così l’atteggiamento nei confronti del presidente della Provincia di Milano, Guido Podestà (“Lo iscrivi tra gli indagati quando te lo dico io”) per Robledo è un atto di eccessiva prudenza politica nei confronti di un importante esponente istituzionale. Così la strana storia del fascicolo sulla vendita da parte del Comune di Milano di un pacchetto di azioni Sea – che vaga per i corridoi della procura, prima assegnato al dipartimento di Greco, poi dimenticato nella cassaforte di Bruti e infine arrivato a Robledo, per i primi atti d’indagine, quando ormai la gara è conclusa – è spiegata da Robledo come una eccessiva preoccupazione che potesse essere aperta un’indagine sull’operato della giunta di Giuliano Pisapia, sindaco di Milano. Così, ancora, la volontà di non drammatizzare le indagini sul San Raffaele, nel 2011, procedendo a nuove iscrizioni sul registro degli indagati (per esempio per l’allora presidente della Regione, Roberto Formigoni) secondo Robledo è suggerita dal non voler interferire sulle delicate trattative che si erano aperte per l’acquisto dell’ospedale di don Verzè da parte di una cordata ispirata dal Vaticano. Oppure certe cautele nei confronti di ambienti della finanza milanese o delle istituzioni di controllo romane. Questi sono i casi più delicati, più spinosi e più difficili da giudicare. Bruti Liberati risponde che la sua non è cautela “politica”, ma semmai giudiziaria: non vuole aperture d’indagini deboli, basate su “articoli di giornali” (San Raffaele) o iscrizioni su dichiarazioni poi ritrattate (quelle di Danilo Donati, collaboratore di don Verzè, che aveva chiamato in causa Formigoni).
IL GIOCO DELLE RIPICCHE
Ci sono poi “buone ragioni” esibite da un fronte o dall’altro per smentire l’avversario, che sembrano però ripicche tardive, o comunque argomenti “ex post” che non aiutano a capire le eventuali ragioni di entrambi. Così il fatto che Robledo non potesse esercitare l’accusa nel processo Ruby, perché aveva fatto causa civile a Berlusconi in risposta ad alcune sue dichiarazioni: questo fatto lo sappiamo solo ora, non è stato un argomento disponibile nel momento in cui l’indagine Ruby è stata assegnata. Più serio, in astratto, il pericolo di sovrapposizione delle indagini, a causa della cattiva comunicazione tra i diversi dipartimenti della procura. Ma è avvenuto? L’episodio denunciato da Bruti e Boccassini (un indagato soggetto a un doppio pedinamento) non è accaduto. È successo invece che Robledo, che stava legittimamente indagando sul manager di Expo Angelo Paris, abbia organizzato un pedinamento il 25 marzo 2014, per scoprire con chi si stava incontrando in un bar di Milano e perché. L’incontro poi non c’è stato e, a operazione conclusa, c’è stata la telefonata di un ufficiale della squadra della Guardia di finanza incaricata da Robledo al suo collega della squadra che lavora con Boccassini, per togliersi il dubbio che non fossero anche loro sul campo. Risposta negativa. Dunque: rischio teorico di sovrapposizione, non diventato realtà. Chi vincerà? Difficile dirlo. Ma anche solo per capire, è necessario almeno spogliarsi dei luoghi comuni, degli abiti mentali consueti in questi casi. Non è utile, né pertinente, la distinzione destra/sinistra. Ancor meno quella berlusconiani/antiberlusconiani. Poco utili anche gli scudi delle tradizionali correnti della magistratura associata, Magistratura democratica contro Magistratura indipendente (e dove mettiamo infatti il Movimento per la giustizia, tradizionalmente alleato di Md, ma in questo caso semmai più vicino a Robledo?). Da ridiscutere è il modello gerarchizzato delle procure, un tempo avversato ma ormai accettato anche da Md. Da ridiscutere e sovvertire – ma questo è perfino più difficile – le pavloviane obbedienze correntizie. Quanto alle prudenze e alle cautele investigative, non fanno certo parte della storia della procura di Milano, da Saverio Borrelli a Gerardo D’Ambrosio, fino a Manlio Minale. La cautela può essere accettabile quando è a protezione delle indagini, non degli indagati. Nessun potente deve essere intoccabile, né avere concesse garanzie maggiori a quelle dei poveri cristi. È questo quello che è successo alla procura di Milano? La risposta la dovrà dare il Csm, fuori dagli schieramenti preconfezionati e senza preconcetti di corrente.

Gianni Barbacetto, Il Fatto Quotidiano 25/5/2014