La Stampa 25/5/2014, 25 maggio 2014
QUEL PRIMO TITOLO UN PO’ IMBARAZZANTE
Dei quattro titoli azzurri proprio il primo, vinto in Italia nel ’34, è quello di cui meno andar fieri. Per inquadrare il periodo, gioverà ricordare che a due mesi dall’avvio, domenica 25 marzo, lo stesso giorno della prima e unica partita di paròn Rocco in Nazionale a Milano contro la Grecia, c’erano state - si fa per dire - le elezioni. Il Partito Nazionale Fascista aveva prevalso non proprio di stretta misura, con il 99,84% dei voti. In assenza di documenti visivi, non dico la moviola ma qualcosa più della rete che si gonfia all’improvviso e della mascella quadrata del Duce in tribuna d’onore, temo sia il caso di prendere con le molle le cronache nostrane dell’epoca, grondanti retorica e trionfalismo: anche perché i resoconti altrui, del resto d’Europa e del mondo, l’hanno raccontata un po’ diversa.
Facendo una media, per carità di patria, l’Italia fu accompagnata per mano verso la vittoria finale proprio come sarebbe accaduto all’Argentina dei generali quasi mezzo secolo più tardi. A Firenze il leggendario portiere Zamora, basco spiovente, maglione a collo alto e ginocchiere d’autore, parò tutto fuorchè un tiro di Giovanni Ferrari: ma prese soprattutto più legnate che nel resto della carriera e non potè giocare la ripetizione del giorno dopo, come il regolamento imponeva in caso di parità. Nella migliore delle ipotesi, perché secondo un’altra versione fu invece il governo spagnolo, amico del nostro, a suggerirgli di rimettersi con calma. Il replay fu deciso da un gran gol di Meazza: ma l’arbitro svizzero Mercet diresse in modo tale che la sua federazione al rientro in patria direttamente lo radiò. In semifinale a Milano segnò subito Guaita, approfittando di una carica al portiere di Meazza: un’inezia rispetto alla brutalità del trattamento che Luisito Monti riservò al fuoriclasse austriaco Sindelar. Tutto sommato la vittoria più regolare arrivò proprio in finale sulla Cecoslovacchia, passata in vantaggio e poi rimontata dai gol di Orsi e Schiavio: anche se il regista Svoboda giocò gran parte del match zoppo all’ala per via di un incrocio col solito Monti. Per dare un’idea della doppia lettura di quel mondiale di regime, i quotidiani italiani di lunedì 11 giugno diedero ampio risalto a un’intervista in cui Jules Rimet, presidente della Fifa, si compiaceva della competenza calcistica del Duce in tribuna al suo fianco. Mentre i giornali del resto del pianeta riferirono di un Rimet molto colpito dall’assoluta quanto sgradevole incompetenza di Mussolini.
Fatto sta che Doble Ancho, al secolo Luisito Monti, dopo aver perso a Montevideo con la maglia dell’Argentina vinse a Roma in maglia azzurra. Ed è tuttora l’unico calciatore della storia ad aver disputato due finali in Nazionali diverse. Del suo modo violento di interpretare il calcio si è narrato abbastanza. E’ tempo di ricordare che l’interpretazione del ruolo di centromediano metodista fu di valore assoluto, per leadership naturale, visione di gioco e facilità di battuta. L’anno dopo il mondiale perso furono due argentini già emigrati alla Juventus, Mumo Orsi e Renato Cesarini, a strapparlo dai propositi di ritiro. Aveva messo in piedi un pastificio a Buenos Aires, produceva tortellini e tagliatelle da buon figlio di emigranti emiliani. Arrivò dunque a Torino nell’estate del ’31, già avanti con gli anni e 15 chili sovrappeso. Fece a tempo a vincere quattro scudetti dello storico quinquennio bianconero e un titolo mondiale, dosando aperture illuminanti e botte da orbi. La formula ideale per il calcio elegante e rusticano di un’epoca che non contemplava telecamere, tantomeno l’uso del replay.
La Stampa 25/5/2014