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 2014  maggio 25 Domenica calendario

DIRITTO ALL’OBLIO, IL DOPPIOGIOCO DI GOOGLE


Lamentandosi della recente decisione della Corte di giustizia europea sul cosiddetto «diritto all’oblio», Eric Schmidt di Google ha scelto una singolare linea di difesa per giustificare le aggressive pratiche commerciali della sua società: il diritto di sapere. La Corte vuole che Google consenta agli utenti di indicare i risultati di ricerca «inadeguati, irrilevanti o non più aggiornati» legati ai loro nomi, in modo che possano essere rimossi dall’indice di ricerca. Sostenendo che la questione comporta «uno scontro tra il diritto all’oblio e il diritto di sapere», Schmidt vuole farci credere che la Corte ha commesso un errore, mentre i geniali ragazzi di Google hanno trovato il giusto equilibrio fin dall’inizio.

Ma che cos’è questo «diritto di sapere» di cui parla? Chi se ne può avvalere? Prendiamo in considerazione una qualsiasi altra attività che non possa concedersi il lusso di usare la nostra infatuazione collettiva per la tecnologia digitale come scudo contro una regolamentazione. Quale azienda non vorrebbe saperne di più sui potenziali clienti o dipendenti? Alle banche o alle compagnie di assicurazione piacerebbe molto sapere tutto di noi: più informazioni hanno, meglio è per i loro affari.
Sapere, ad esempio, se al mattino beviamo caffè oppure succhi vegetali renderebbe sicuramente più facile prevedere se nei prossimi cinque anni avremo un infarto: un’informazione molto importante per decidere se darci un prestito o farci un’assicurazione, e a quali condizioni. Non è poi così difficile scoprire cosa beviamo a colazione, di solito queste informazioni sono disponibili su Facebook e Instagram. Molte aziende astute hanno già trovato il modo per sfruttarle. Come ha detto Douglas Merrill, ex Chief Information Officer di Google e fondatore di ZestFinance, una start-up che esamina più di 80 mila fonti per valutare la nostra idoneità al credito, «tutti i dati sono rilevanti per il credito».
Nell’ambito delle questioni finanziarie, questo è senz’altro vero. Ma un mondo in cui tutti i dati sono rilevanti per concedere un credito è un mondo in cui ogni decisione che prendiamo sarà viziata dalla paranoia e dall’ansia per l’effetto che potrebbe avere sul nostro profilo creditizio. Solo le banche e le agenzie di spionaggio vorrebbero vivere in un mondo simile. E certamente non possono minimamente invocare il «diritto di sapere», se con questo si intende l’accesso incondizionato e senza vincoli a tutte le informazioni che sono in grado di carpire. In questo caso ZestFinance utilizzerebbe 800 mila fonti di informazioni, non 80 mila.
È per questo motivo che alcuni Paesi cercano di impedire che i loro istituti di credito decidano anche sulla scorta di informazioni tratte dai social media. Ma un tentativo del genere può avere successo solo se il processo decisionale è soggetto a uno stretto controllo. Come si fa a impedire che i datori di lavoro guardino quel che fanno sui social media i candidati all’assunzione? Dopotutto, possono farlo anche al di fuori delle ore di lavoro e sostenere poi che la decisione di non assumere qualcuno è dovuta a qualche altro fattore puramente soggettivo.
«Il diritto all’oblio» è un passo verso l’obiettivo a cui tendono queste regolamentazioni, ma, invece di sperare che siano le istituzioni a non usare impropriamente le informazioni online, si consente ai cittadini di intervenire direttamente. Permettere ai cittadini di rimuovere dagli indici di ricerca — magari temporaneamente — aspetti critici del loro stile di vita attuale e passato è il minimo che possiamo fare.

Se però si ritiene accettabile imporre barriere alla fame di dati di banche e compagnie di assicurazione, perché si dovrebbe fare un’eccezione per i motori di ricerca? Il modello di Google non è molto diverso: raccogliere più informazioni possibili, organizzarle nel modo più utile (e quindi più profittevole) possibile, e fare soldi. Certo, sono gli utenti normali — come voi e me — a beneficiare di questa fonte di conoscenza, ed è quindi comprensibile che essi tendano a simpatizzare con Google piuttosto che con le banche. Ma è una buona ragione per credere che un modello di organizzazione della conoscenza che favorisce gli interessi commerciali di Google favorisca anche l’interesse pubblico? Naturalmente no: Google funziona in questo modo non perché un altro motore di ricerca sia impossibile, ma perché non siamo riusciti a trovare un modo più umano, tollerante e indulgente per organizzare la nostra conoscenza collettiva. Questo non significa che non sia possibile, ma solo che Google ha fatto del suo meglio per convincerci che è l’unico a offrire un servizio del genere. Dato che Google è nel business dell’informazione, ogni tentativo di sottoporlo a controlli viene inevitabilmente fatto passare per censura, come dimostra l’osservazione di Eric Schmidt sul diritto di sapere. Le informazioni in questione non sono però completamente eliminate (si possono ancora trovare, anche se a un costo più alto), sono solo meno visibili. Il motto di The Circle — la società al centro dell’omonimo inquietante romanzo di Dave Eggers su un gigante dell’high-tech che somiglia in modo impressionante a Google — è: «I segreti sono bugie. Avere a cuore vuol dire condividere. La privacy è un furto». A quelle tre proposizioni ne possiamo ora aggiungere una quarta: la regolamentazione è censura. Se una società come ZestFinance — per la quale «tutti i dati sono rilevanti per il credito» — a vesse usato un simile artificio retorico, ci saremmo sicuramente messi a ridere. Se lo fa Google, invece, le sue parole sono trattate con la serietà che si riserva ai saggi e ai filosofi, non alle multinazionali rapaci.

Eric Schmidt non lo dice, ma Google viola continuamente «il diritto di sapere». Di fatto rimuove già i risultati della ricerca dal suo indice quando a chiederglielo sono i fornitori di contenuti — editori, produttori cinematografici, case discografiche — che hanno le loro vie legali per chiedere la rimozione di link a materiali protetti da copyright. Così, la linea di difesa secondo la quale quel che la Corte europea richiede è tecnicamente impossibile non regge: Google fa già una cosa del genere. Ma se questo è possibile per i detentori di copyright — per lo più società — perché non dovrebbe esserlo anche per i cittadini, le cui richieste non sono meno legittime? E perché Eric Schmidt non si preoccupa del «diritto di sapere» nei confronti dei titolari dei diritti d’autore? Non è forse perché l’industria dei contenuti è molto meglio organizzata dei comuni cittadini, sostenuta com’è da lobbisti potenti quanto Google?
Che Google rispetti la sentenza della Corte non basta: è importante anche come lo fa.
Ogni volta che Google rimuove i link a film o libri piratati, di solito mette un avviso in fondo alla pagina, per informare gli utenti di quanti link sono stati rimossi e perché. Si sarebbe tentati di pensare che un sistema simile potrebbe funzionare per il «diritto all’oblio», ma in realtà creerebbe disastri ben peggiori della rimozione di un link. Assumeremmo una persona se, facendo una ricerca in Internet, venissimo a sapere che dei link — che non possiamo controllare — sgradevoli e dannosi alla sua reputazione sono stati rimossi? Sapere che qualcuno ha un passato sospetto e ignorare perché, spesso è peggio di sapere cosa ha fatto: l’immaginazione galoppa più della realtà. Mostrare un avviso farebbe più male che bene.
Il diritto di sapere come gli interessi commerciali di Google indirizzino la sua filosofia e le sue scelte tecniche: questo sì che è un diritto che bisognerebbe promuovere.

(traduzione di Maria Sepa)