Alessandro Piperno, Corriere della Sera - La Lettura 25/5/2014, 25 maggio 2014
CARA LOLITA, LA TUA VITA NELLE MIE MANI
Una delle cose più seccanti di presentare il tuo libro in pubblico è che sei portato a parlarne con gravità. Certo, te la puoi cavare anche con la sprezzatura, non scevra di frivolezza. Ma si tratta di una scelta altrettanto umiliante e perniciosa. Dopotutto, ne hai impiegato di tempo a scriverlo, quel benedetto libro: perché ora, per presentarlo, devi metterti a fare il pagliaccio? Il momento più critico è quando devi chiamare in causa un personaggio. Che fare? Usi il nome di battesimo? O il cognome? Oppure lo evochi in modo impersonale, tipo «la zia del protagonista» o «l’amante del maggiordomo»?
Molti anni fa assistetti alla presentazione di una scrittrice americana, tutt’oggi in voga, di cui per cavalleria tacerò il nome. Era sorprendente sentirla discettare dei suoi personaggi. Per lei erano «Jill» e «James», amici di vecchia data. Dio, se era entusiasta di Jill! Del resto, quel James non le andava proprio a genio.
Ero stupefatto, e anche un po’ imbarazzato per lei. Parlava di Jill e di James come io non parlerei neppure dell’Achille omerico o di Emma Bovary. Dicono che il segreto per creare un buon personaggio sia credere ciecamente nella sua esistenza. È la ricetta balzachiana. Mi chiedo, però, se tale suggestione non rischi di mettere a repentaglio il patto che qualsiasi scrittore di buonsenso sottoscrive con se stesso e con il lettore. Quel contratto, insito nella parola «romanzo», il cui unico articolo ineludibile recita solennemente: «Io, scrittore, mi impegno a scrivere di esseri finti come se fossero veri. Tu, lettore, fai finta di credermi». Qualsiasi deroga a questo sacro vincolo originario, sancito dalla letteratura, è un’ingenuità che genera mostri. E spero che Jill e James non me ne vogliano.
Homo fictus
A tal proposito, E. M. Forster ha scritto pagine spassose, soffermandosi, con comica pedanteria, sulla differenze tra homo fictus (così lo chiama) e homo sapiens , ovvero tra un personaggio romanzesco e una persona in carne e ossa. Forster, tra le altre cose, nota come certi equilibri biologici, indispensabili alla sopravvivenza, non abbiano alcun senso per il personaggio romanzesco. Un essere umano ha necessità di dormire un certo numero di ore, di consumare almeno un paio di pasti al giorno. E ciascuno di noi, soprattutto da una certa età in poi, può fare a meno dell’amore e del sesso. Non altrettanto si può dire di un personaggio romanzesco, per cui i pasti sono solo un’occasione mondana, l’insonnia una scelta di vita, ma guai a togliergli l’amore. D’altra parte, Forster non nega (e come potrebbe?) l’influenza esercitata dal personaggio sul creatore. Forster non esclude che talvolta sia l’autore a correre dietro al personaggio, e non viceversa. Questa sì che è una vecchia questione. Provate a chiedere a uno scrittore esordiente, fresco e puro come un bicchiere d’acqua, perché ha risolto quella scena in un modo e non nell’altro. Vi sentirete rispondere: «Non lo so, è stato il personaggio a condurmi lì». Temo si tratti di un cliché, anche abbastanza noioso. Che faceva infuriare il vecchio Nabokov. «I miei personaggi» disse una volta «sono galeotti condannati ai remi». Come a dire: sono io che comando.
È davvero così che funziona?
Concediamo a Nabokov il beneficio del dubbio, accordandogli la fiducia che merita: è ovvio che lui, ancor prima di sedersi alla scrivania, sappia cosa i suoi personaggi faranno, diranno, proveranno. Non è difficile credere che sia il signore indiscusso del suo inimitabile vascello: allo stesso tempo nocchiere, ammiraglio e armatore.
Ma ciò che vale per Nabokov vale anche per tutti gli altri? Che so, è possibile ipotizzare che quel caratteraccio di Jane Eyre, almeno mentre veniva concepita, abbia reclamato un po’ di autonomia come un feto che sgomita per uscire prima del tempo? E chi ci assicura che quel bastardo di Stavrogin non abbia giocato qualche brutto tiro al suo inventore?
Sadismo e tenerezza
È evidente che si tratta di interrogativi oziosi, che mai potranno avere risposta. Non ho un debole per le elucubrazioni pirandelliane. Stento a prendere sul serio personaggi letterari che se ne vanno in giro come barboni, alla ricerca di un ingaggio. Assai più elettrizzante è considerare i patimenti dello scrittore smanioso di creare dal niente un tipo umano che somigli a tutti, e non somigli a nessuno. Sartre, ne Le parole , la sua strana autobiografia, ricorda quando da ragazzino iniziò a scrivere la storia di Daisy: «Cosa mi impediva di cavar gli occhi a Daisy? Morto di paura, mi rispondevo: niente. E glieli cavavo come avrei strappato le ali d’una mosca. Scrivevo, col cuore che mi batteva: “Daisy passò la mano sugli occhi: era diventata cieca!”, e rimanevo stupito, la penna a mezz’aria: avevo prodotto nell’assoluto un piccolo avvenimento che mi comprometteva, deliziosamente. Non ero veramente sadico: la mia gioia perversa si mutava subito in panico, annullavo tutti i miei decreti, li riempivo di cancellature per renderli indecifrabili: la fanciulla recuperava la vista, o meglio non l’aveva mai perduta». Molto si è detto su questo passo di Sartre, soprattutto sugli aspetti retorici della faccenda: il potere divino della creazione, il senso di responsabilità dell’autore nei confronti del personaggio. Intendiamoci, cose importanti, ma in fondo non così eccitanti. Ancora una volta, mi sembra che l’essenza del problema sia l’influenza esercitata dal personaggio sull’autore. Prima Sartre crea Daisy. Poi l’acceca. Infine, preso dal panico e dalla pietà, le restituisce la vista. In poche righe Sartre mostra come il lavoro su un personaggio, anche per lo scrittore più imberbe, non sia mai asettico. E come di norma l’atteggiamento di un autore oscilli tra sadismo e tenerezza. Il gusto irresistibile dell’accanirsi, di mettere l’eroe in una situazione difficile. Infierire è un buon modo per renderlo interessante.
In questa pratica Dickens e Kafka non hanno rivali. Pensate a David Copperfield e a Pip. Sin dalla prima riga, poveri ragazzi, patiscono la loro condizione di orfani indigenti. Appena venuti al mondo, devono già affrontare la difficoltà di vivere. La beffa è che noi siamo grati a Dickens per l’infelicità dei suoi orfanelli, ma anche per aver donato loro una straordinaria audacia. Tanta sventura e tanto coraggio ci avvincono e ci commuovono. Siamo disposti a seguire David e Pip in capo al mondo.
Il caso Kafka è diverso. I suoi personaggi non hanno un passato. Per loro esistono solo un presente ostile e un futuro minaccioso. Affrontano esperienze estreme che nessuno di noi potrebbe sopportare. Hanno brutti risvegli: uno viene arrestato senza motivo, l’altro si è appena trasformato in un immondo insetto. Siamo sorpresi dalla seraficità con cui reagiscono alle calamità (noi, al posto loro, saremmo assai meno sportivi). Ma allo stesso tempo siamo naturalmente portati a farci carico dei loro guai.
Questo è un punto cruciale. Capita assai spesso che il lettore si coalizzi con il personaggio contro l’autore.
Un altro luogo comune in voga recita che un personaggio letterario è per uno scrittore ciò che un figlio è per un padre. Mi sembra una splendida sciocchezza. Un buon padre fa di tutto affinché il figlio abbia una vita comoda e felice, si adopera per offrirgli le migliori condizioni. Un buon romanziere fa l’esatto contrario: sottopone il personaggio a un numero disumano di prove, gli mette i bastoni tra le ruote. E lo fa — questo sì, come un padre — per il suo bene. Gli dice: «Vuoi esistere? E allora fatti maltrattare». Peccato che, come mostra Sartre, le angherie subite dal personaggio non lascino indifferente colui che gliele ha capziosamente inflitte. Cosa sono il sentimentalismo di Dickens e la pudica pietà di Kafka se non il risarcimento affettivo concesso dall’autore alle sue infelici creature?
Come metterli in scena
Ho letto non so dove che ogni volta che uno scrittore introduce un nuovo personaggio nella storia deve accettare il rischio d’un calo improvviso di energia. Mi pare una verità incontestabile, che forse spiega perché molta narrativa contemporanea sia allergica ai grandi affreschi, e perché ami concentrarsi su una voce monologante. Il lettore è pigro e conservatore. Una volta che si è affezionato a qualcuno, è difficile distoglierlo. Il modo in cui Tolstoj, in Anna Karenina , elude questo problema è all’altezza del suo genio, e rappresenta, per chiunque faccia indegnamente il suo stesso mestiere, un modello inimitabile. Il romanzo si apre su Oblonskij, personaggio importante ma secondario, che ha il pregio di essere simultaneamente fratello di Anna, cognato di Karenin e Kitty, e amico di vecchia data di Levin, quindi è strettamente implicato con i quattro protagonisti dell’opera. È bello che sia un tipo come Oblonskij a darci il benvenuto nel romanzo. Un gentiluomo affabile, avvenente, elegante, così indifeso di fronte agli appetiti della vita: il sesso extraconiugale, la convivialità virile, gli agi garantiti dal privilegio sociale. Ci sta talmente simpatico che gli perdoniamo persino le scappatelle adulterine. Speriamo solo che Dolly, la moglie, lo perdoni. Ci piace persino vederlo in ufficio, immerso nelle mansioni di burocrate di alto bordo. Il suo modo di lavorare è talmente rilassante. Sicché, quando il suo sguardo si posa indulgente sul tizio che è andato a trovarlo, non sentiamo alcun calo di energia. Quel tizio ci interessa perché interessa a Oblonskij. Non sappiamo ancora che si chiama Levin, ma sappiamo che Oblonskij gli vuole bene e quindi siamo portati a volergliene anche noi. Così Tolstoj introduce Levin nel modo meno traumatico possibile. Gli bastano poche pennellate per farci capire che, sebbene assai diverso, Levin non è meno interessante di Oblonskij. Poi Oblonskij e Levin vanno a pranzo. Parlano della ragione per cui Levin è venuto a Mosca. Vuole sposare Kitty, la cognata di Oblonskij. Oblonskij informa Levin che per avere Kitty dovrà affrontare un rivale che si chiama Vronskij. Finito il pranzo Levin, spronato da Oblonskij, va a cercare Kitty. La trova su un campo di pattinaggio. La nostra prima volta con Kitty è attraverso gli occhi innamorati di Levin. Nel frattempo, Oblonskij va a prendere alla stazione la sorella Anna. Lì incontra Vronskij: un damerino elegante, spavaldo e sicuro di sé (già lo odiamo). Lui è alla stazione per accogliere la madre, la quale, guarda caso, ha fatto il viaggio con Anna. Quando il treno arriva, Vronskij raggiunge la madre nello scompartimento. Ma ecco che sul predellino incrocia questa bella sconosciuta. I due si guardano: niente sarà più come prima. La straordinaria coreografia immaginata da Tolstoj per mettere in scena i suoi personaggi ha la grazia, la naturalezza e la solennità di un’ouverture mozartiana.
L’importanza di chiamarsi Copperfield
Prima di aprire un romanzo, guardo sempre sul risvolto di copertina i nomi dei personaggi principali. Se sono troppo banali o troppo parodistici o troppo didascalici non vado oltre. Nell’universo romanzesco l’onomastica ricopre un ruolo assai più determinante che nel nostro mondo. La società in cui viviamo tollera l’omonimia, tassativamente vietata in letteratura. Nessun altro Fabrizio Del Dongo, se non per velleitari esercizi parodistici, calcherà il palcoscenico. Il lusso di ispirarsi a un altro individuo, concesso a qualsiasi uomo, è precluso ai personaggi letterari, che devono essere originali e archetipici come Adamo. Per questo i loro nomi sono stati scelti con immaginifica e fatalistica precisione.
Uno che si chiama David Copperfield avrà una vita avventurosa, è chiaro. Così come uno che si chiama Oblomov di certo non ce l’avrà. Uno che si chiama Scrooge probabilmente alla fine si pentirà. E non è strano che un Bartleby sia dotato di una certa ostinazione. Possiamo ipotizzare che uno che si chiama Akakij Akakievic Bašmackin verrà quanto meno sbeffeggiato dai colleghi, mentre uno che si chiama Peeperkorn compirà un gesto tanto dissennato quanto imprevedibile. Del resto, confidiamo che se uno si chiama Leopold Bloom possa avere una brutta giornata, ma chi si chiama Charles Swann, invece, le giornate se le saprà godere. Non dubitiamo un istante che un Humbert Humbert sia pedante e pervertito come un serial killer e che una Holly Golightly non potrà non spezzarti il cuore.