Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  maggio 25 Domenica calendario

LA RICONFERMA DI SISI: LE MANI DEI MILITARI SULL’ECONOMIA EGIZIANA


Domani e dopo gli egiziani eleggeranno Abdel Fattah Al Sisi loro presidente. Non ci sono dubbi sulla vittoria dell’ex capo dei servizi militari che da luglio regge de facto l’Egitto dopo aver deposto Mohammed Morsi, unico raìs dalla fine della monarchia a non provenire dall’esercito. Il solo sfidante, il socialista Hamdeen Sabahi, non ha chance. Il vero rivale di Al Sisi sarà l’astensione. E non tanto perché pochi sperano ormai nella democrazia dopo la fallita Rivoluzione del 2011, ma perché la crisi economica è travolgente, la miseria sempre più diffusa, la fiducia che cambi qualcosa scarsa. Al Sisi non ha fatto comizi né ha annunciato programmi precisi. Ha detto che «per la democrazia ci vorranno 25 anni» ma in cambio ha promesso «sicurezza e stabilità economica». Se la prima è relativamente facile da imporre, annullando ogni oppositore o presunto tale (decine di migliaia sono in cella, centinaia sono stati uccisi) e riportando nelle strade la polizia e più discretamente i militari, la seconda è un obiettivo ambizioso. «Da tre anni deficit e debito pubblico aumentano, ora sono al 14 e al 100% del Pil.
Il turismo e gli investimenti privati locali e esteri sono crollati. La crescita è stata
in media del 2% mentre disoccupazione e inflazione sono salite», sintetizza l’economista Mohammed Samhouri. Che fare? La ricetta di Al Sisi è la militarizzazione. Non proclamata ma indicata
da molti segnali.
«L’esercito già controlla il 40% dell’economia e quasi il 90% della terra, ha fabbriche di pasta e tv, hotel, ospedali, petrolio. Da tempo è uno Stato nello Stato, senza controlli, ma ora vuole gestire direttamente il Paese», dice Ayman Ahmed, giornalista di Al Watan . A partire dai fondi del Golfo, che ha stanziato 15 miliardi di dollari in aiuti dopo il golpe contro l’odiato Morsi e sta varando progetti faraonici. Come quello firmato in marzo per un milione di alloggi in 48 nuove città nel deserto (costo: 40 miliardi di dollari) o quelli previsti per sviluppare il canale di Suez, a cui ancora ne seguiranno grazie alla nuova legge che elimina le gare di appalto. Tutto gestito dai militari il cui fine è aumentare il proprio «impero» creando intanto redditi e occupazione.
Non potrà fare tutto da solo, l’esercito. Da mesi ha infatti intensificato i rapporti con i grandi uomini d’affari, dal magnate delle telecom Sawiris al re della ceramica Abul Enein. A questi ultimi, Al Sisi avrebbe anticipato aumenti fiscali vista l’emergenza, così come per le classi medie si sta profilando la fine dei sussidi di cui godono il 70% degli egiziani e che solo per la benzina costano allo Stato 19 miliardi di dollari l’anno. Solo per i poveri (circa il 40% della popolazione) ci sarà qualche aiuto. In parallelo i militari si stanno rafforzando nell’apparato statale, dalle province ai ministeri, per frenare la corruzione esplosa sotto Sadat e peggiorata con Mubarak, per tentare di salvare il Paese dalla bancarotta e evitare nuove rivolte. «Nessuno più pensa ai diritti umani, conta solo la crisi economica», dice Amir Salem, avvocato di molti oppositori. «Ora l’esercito avanza su tutto come un treno, sostenuto dal grande business e dagli uomini del vecchio regime mubarakiano. Ma dubito che andrà lontano, anche lì ci sono corruzione e interessi privati. Al Sisi sta rischiando molto promettendo la stabilità. Staremo a vedere».