Mauro Magatti, Corriere della Sera 24/5/2014, 24 maggio 2014
UN NUOVO BLOCCO SOCIALE CONTRO LA CRISI E L’IPOTESI DI ALLEARSI CON FRANCIA E SPAGNA
La portata storica della crisi con la quale abbiamo a che fare continua a essere sottostimata. Ci sono infatti tre piani diversi che, storicamente collegati ma analiticamente distinti, pesano sulle nostre teste. E che spiegano la gravità della situazione attuale.
Il primo piano investe l’ordine internazionale. L’infarto dell’economia mondiale ha infatti interrotto la stagione espansiva basata sui principi della deregulation liberistica avviatasi negli Anni 80 e poi pienamente dispiegatasi tra il 1989 (caduta del Muro di Berlino) e il 2008. Una fase che, sul piano politico, poggiava sulla indiscussa egemonia degli Stati Uniti. La crisi europea ha aperto una crisi dentro la crisi. Le istituzioni dell’Unione sono state concepite per tempi ordinari. Ma si sono dimostrate impreparate per affrontare tempi straordinari, come quelli iniziati con il crollo di Wall Street. Le fortissime tensioni che oggi attraversano un’Unione sempre più disunita sono la conseguenza di una impressionante concatenazione storica: unificazione tedesca (1992), trattato di Maastricht (1993), nascita dell’euro (2000), crisi finanziaria (2008). Un’Europa fatta di tante diversità ha affrontato la più grande crisi del dopoguerra con una disciplina monetaria che solo la Germania, e pochi altri Paesi nordici, sono in grado di reggere. Con alle spalle un ventennio impegnativo ed entusiasmante, i tedeschi non vogliono o non possono capire quello che sta accadendo in ampie parti del continente. Con conseguenze imprevedibili. Il terzo piano è quello italiano. Su cui non serve soffermarsi, se non per ricordare che sono passati più di 30 anni dalla prima Commissione Bozzi per le riforme istituzionali (1983). Che economicamente l’Italia ha prima smesso di crescere (2000-2008) e poi cominciato a decrescere (e non felicemente: dal 2008 al 2014). Oggi ci sono interi gruppi sociali e intere aree del Paese (specie al Sud) convinte di non aver più nulla da perdere. Come se ne esce?
Trattandosi di una crisi storica, nessuno ha la bacchetta magica. Per tirarsi fuori dalla trappola in cui siamo finiti, ci vogliono competenza, audacia, consenso. Lungo una strada che richiederà anni. Ma qual è questa strada?
A livello globale si vanno cercando e formando nuovi equilibri geoeconomici e geopolitici sulla base di un nuovo paradigma: la concezione neoliberista degli anni 80 e 90 (sintetizzabile nel cosiddetto Washington Consensus) lascia il posto ad un nuovo protagonismo della politica economica monetaria e fiscale degli Stati e al tentativo di creare nuove alleanze e aree di influenza (vedi l’accordo tra Russia e Cina sul gas o la trattativa in corso tra Usa e Ue sul Transatlantic Trade and Investiment Partnership). Dopo la crisi del 2008, l’autoregolazione dei mercati è tornata a fare i conti con il ruolo giocato dall’autorità politica e la sua influenza internazionale.
Si capisce allora l’urgenza della questione europea che oggi costituisce l’ordine istituzionale naturale a cui guardare per affrontare le sfide di questa nuova fase storica. Con un’Inghilterra che rimane defilata e fuori dell’euro, solo un’alleanza vera e forte tra i tre principali Paesi del Mediterraneo (Italia, Francia e Spagna) — accomunati dagli stessi problemi — può riuscire a riequilibrare la situazione. Non si tratta di rivendicare una politica economica lassista che i tedeschi non concederanno mai e che, alla fine, continuerebbe a rinviare il problema delle riforme. Si tratta, piuttosto, di arrivare finalmente a definire quelle misure e quegli strumenti di cui si parla da anni (a cominciare dagli eurobond) che possono permettere l’avvio di un processo virtuoso. Il Sud Europa deve fare le riforme. L’Europa dia una mano ai governi a fare quelle riforme che sono sempre politicamente delicate. Ma non si può chiedere a metà del continente di fare le riforme, affrontare la crisi economica e sociale, pagare il debito allo stesso tempo. Una visione di questo tipo è economicamente deleteria, socialmente insostenibile, politicamente distruttiva.
Infine, c’è l’Italia, attraversata da inquietudini profonde e contraddittorie. Tutti a parole vogliono il cambiamento. Degli altri. Con il risultato che tutto si logora velocemente. Nel Paese esiste un ampio ma troppo generico consenso sulla necessità di cambiare passo. Semplicemente perché i vecchi equilibri sono ormai tutti saltati. Il rischio è che la montagna si muova travolgendo tutto. Per evitarlo, va rapidamente coagulato un nuovo blocco sociale disposto a sostenere — e a pagare — per un cambiamento che, a questo punto, non potrà essere indolore.
Giovani, donne, ceto medio istruito, artigiani, autonomi, commercianti, pensionati capaci ancora di pensare al futuro dei loro nipoti, piccoli e medi imprenditori, scuola e università, mondo cattolico e borghesia illuminata sono i tanti frammenti dispersi, forse ancora suscettibili di associarsi attorno a persone credibili. Si tratta di gruppi culturali, economici e sociali che, per lo più, fanno (ancora) riferimento all’area governativa. Di fronte all’avanzata di Grillo, portato dallo «straripare convulso degli odi e delle pulsioni», e alla sua idea di «partito unico dei cittadini», solo dalla consapevolezza della portata storica del declino italiano può nascere un progetto consapevole e autorevole.