Alessandra Farkas, Corriere della Sera 24/5/2014, 24 maggio 2014
JUNK FOOD OGGI E SEMPRE CHE MAGNIFICA OSSESSIONE
NEW YORK — È stato best-seller del «New York Times», finalista al «Los Angeles Times Book Prize for Fiction», lettura obbligatoria per il Master in scienza della Nutrizione dell’Università di Portland, in Oregon. Dopo aver animato show televisivi, chat room e dibattiti pubblici, I Middlestein di Jami Attenberg è nelle librerie italiane grazie alla Giuntina di Firenze: la stessa casa editrice di Elie Wiesel e Irène Némirovsky.
Un’affermazione importante per un romanzo epico, tragico e insieme comico sul matrimonio, la famiglia e le ossessioni moderne (soprattutto cibo, ma anche alcol, marjuana e ortoressia). Un libro solo all’apparenza molto americano ed ebraico, la cui universalità è dimostrata dal fatto che sta per uscire in Paesi diversi come Turchia, Russia, Taiwan, Germania, Francia, Olanda, Israele e Inghilterra.
«Edie è una di noi», ha scritto l’inglese «Telegraph» nel recensire I Middlestein , dove la matriarca Edie Middlestein, brillante avvocata cibo-dipendente di Chicago che arriva a pesare oltre 150 chili, preferisce ipotecare un’intera vita — il pluridecennale matrimonio col farmacista Richard, due figli e due nipoti che l’adorano, una bella casa e tanti amici — piuttosto che resistere all’abisso senza ritorno del junk food e degli ipercalorici intingoli cinesi.
«Il modo in cui ci rapportiamo al cibo e l’impatto che ciò ha sulla cultura, la società e la famiglia sono temi universali», esordisce la 43enne autrice, seduta al tavolo da cucina di un ex magazzino in affitto nel cuore dell’ultimo decrepito angolo di Williamsburg non ancora invaso dai giovani yuppie, dove studenti chassidici coabitano con pittori e scrittori. «Quale famiglia non ha avuto a che fare con un parente vittima di abbuffate compulsive, al punto che tutto l’amore del mondo non può salvarlo?».
C’è qualcosa d’autobiografico nel libro?
«Anch’io da piccola ero grassa e so bene cosa spinge la protagonista ad abbuffarsi, giorno dopo giorno. Cibo e amore in fondo sono due facce della stessa medaglia: il primo è il surrogato del secondo. Il padre di Edie, un emigrante ebreo fuggito dall’Ucraina, rischiò di morire di fame durante il suo viaggio verso l’America. Da quel giorno non è mai più riuscito a saziarsi. Servirsi due, tre, anche quattro volte, per lui è normale».
Secondo alcuni critici il suo romanzo è imparentato alla crociata antiobesità di Michelle Obama e Michael Bloomberg.
«Condivido lo sforzo della first lady per educare l’America sui rischi del junk food ma le imposizioni legislative dell’ex sindaco sono antidemocratiche. I Middlestein ha acceso un dibattito globale sull’obesità? Ne sono felice, anche se la mia intenzione era descrivere piatti irresistibili che io stessa mangerei, non creare metafore a sfondo sociale. La mia molla, insomma, è stato l’amore per la gastronomia».
Come definirebbe il rapporto della cultura ebraica col cibo?
«Simile a quello di altre culture, dove mangiare è un modo per esprimere le emozioni e celebrare la famiglia e le grandi tappe della vita, dalla nascita alla morte, passando per lauree, matrimoni e anniversari. Nei miei book tour ho incontrato irlandesi, greci, cinesi, italiani e arabi che mi hanno ringraziata per aver parlato della loro famiglia».
Nel suo libro si mangia molto senza mai cucinare.
«Mio fratello ed io eravamo latchkey child , la prima generazione di bambini ‘con la chiave attorno al collo’, che ogni giorno ritornavano da scuola in una casa vuota perché entrambi i genitori erano al lavoro. Ricordo ancora i tanti pasti solitari che fui costretta a cucinarmi. Il saggio di Irving Cutler The Jews of Chicago: From Shtetl to Suburb è stato essenziale per ricostruire Buffalo Grove, il quartiere molto ebraico di Chicago dove sono cresciuta e dove ho ambientato il romanzo».
Il padre di Edie aveva impiegato il tempo libero aiutando gli immigrati russi a costruirsi una nuova vita, mentre lei lavora per uno studio legale al servizio di società per lo sviluppo di volgari e inutili centri commerciali.
«La consapevolezza di non lavorare più al servizio dei bisognosi si rivela micidiale. Io sono cresciuta proprio tra gente così, generosa e altruista, convinta che aiutare gli altri sia un imperativo etico. Da piccola non capivo perché gli ebrei fossero accusati di avidità ed egoismo».
Un critico ha definito «I Middlestein» «la versione ebraica de “Le Correzioni” di Jonathan Franzen. Lo stesso Franzen ha scritto: «”I Middlestein” mi hanno conquistato fin dalle prime pagine».
«Franzen è un insuperabile maestro nell’arte della struttura letteraria. Sono estasiata che mi abbia dedicato un blurb , senza neppure conoscermi. I miei romanzi precedenti non avevano venduto un granché ma il suo intervento mi ha regalato una vera chance. Mi sento debitrice anche nei confronti di Elizabeth Strout».
L’autrice che ha vinto il Pulitzer nel 2009 con «Olive Kitteridge»?
«È la mia musa. Dopo aver letto quel libro mi sono detta che anch’io potevo scrivere una collezione di racconti collegati tra loro, ambientati nel quartiere dov’ero nata e cresciuta. Naturalmente alla fine i nostri due libri non potrebbero essere più diversi».
Le sue altre passioni letterarie?
«Parto dalla sacra trinità, Grace Paley-Raymond Carver-Flannery O’Connor e, passando per il primissimo Philip Roth, per Nathan Englander e il geniale Michael Chabon di Le fantastiche avventure di Kavalier & Clay , arrivo a Elena Ferrante che in America ha un seguito cult tra le scrittrici ed è adorata persino dal “New Yorker”».
Di recente Samuel D. Hunter ha scritto un play sullo stesso tema intitolato «La balena». È l’inizio di un trend?
«Anche lui viene dal Mid West, un luogo lontano dalle diete massacranti e dai modelli di magrezza delle grandi città dell’East e West Coast. Pure lui è un ex grasso alle prese con un’opera semiautobiografica».
Come definirebbe il rapporto tra cibo e letteratura?
«The Epicure’s Lament di Kate Christensen e Heartburn di Nora Ephron rendono giustizia al genere. Amo molto Big Night , il film di Stanley Tucci dove la scena finale del Timpano è un capolavoro. Il recente video super sexy del «New Yorker» sulla tecnica per affettare il salmone affumicato mi ha fatto desiderare di rotolarmi su tappeti di delizioso pesce arancione. Oggi passo ore a fantasticare sul cibo: il mio hobby è studiare i menu».
Di cosa parla il suo nuovo libro in uscita l’anno prossimo?
«Si ispira a Up in the Old Hotel di Joseph Mitchell, una collezione di saggi pubblicati sul New Yorker negli anni Quaranta e Cinquanta, uno dei quali dedicato a Mazie Phillips-Gordon, detta “Regina della Bowery”, proprietaria all’inizio del Novecento di un cinema nell’Upper West Side da dove aiutò innumerevoli homeless , salvando tante vite. Vorrei scrivere anche dei miei nonni, mercanti di mobili emigrati a Boston dalla Russia all’inizio del Novecento e poi trasferitisi nel Mid West dove usavano il salotto di casa come showroom . Col grande vantaggio, mi spiegò un giorno mio padre, di avere tutte le settimane un mobilio completamente nuovo».