Diego Gabutti, ItaliaOggi 24/5/2014, 24 maggio 2014
TUTTI PREVEDONO (O HANNO PREVISTO) IL DECLINO DEGLI STATI UNITI D’AMERICA. MA I VARI COMPETITOR CI HANNO RIMESSO SEMPRE LE PENNE
Fu il leitmotif, nel lontano 1960, della campagna presidenziale di John Fitzgerald Kennedy: c’è un gap missilistico tra noi e i russi, tra poco l’Urss ci supererà in tutto, nel pil, nelle spese per la difesa, nella qualità del sistema scolastico. Era la nascita d’una nuova filosofia politica (che in breve sarebbe diventata una mezza religione, per di più intollerante e anche un po’ fanatica: il «declinismo», o la fine eternamente annunciata del sistema americano, superato e messo in ginocchio da sempre nuove potenze globali economicamente, tecnologicamente e ideologicamente più vigorose e agguerrita) come racconta Josef Joffe, editore e direttore del settimanale tedesco Die Zeit, in un grande libro, Perché l’America non fallirà, UTET 2014, pp. 285, 16,00 , che si legge come un pamphlet illuminista: un bagno di buon senso e le superstizioni che perdono, pagina dopo pagina, peso e sostanza.
Al declinismo 1.0, quello degli anni Cinquanta, seguì il declinismo 2.0 dei Sixties, quando «le proteste per i diritti civili e contro la guerra segnarono e cambiarono la nazione». Poi ci fu il declinismo dell’era di Jimmy Carter, il 3.0: l’America, umiliata in Vietnam, era fuori ormai da qualsiasi gioco globale, esultavano i profeti di sventura. Poi ci fu Reagan e il declinismo passò alla release 4.0: il Giappone e Gorbaciov erano sul punto di liquidare la supremazia della Casa bianca nel mondo — l’America aveva in tutta evidenza i giorni contati. Nel giro di pochi anni, anzi di pochi mesi, l’Urss era scomparsa dalle mappe della storia, per di più senza lasciare tracce, e il Sol Levante (che avrebbe dovuto papparsi gli Stati Uniti in un boccone, poi il pianeta intero) era al tappeto, e non si sarebbe più ripreso.
Oggi siamo al declinismo 5.0: la Cina (il cui modello di sviluppo, il capitalismo autoritario di stato, o «modernitarianismo», come lo chiama Joffe, non è farina del sacco di Deng Xiaoping ma è la fotocopia del modello economico di Taiwan) è già la potenza dominante, o poco ci manca, e gli Stati Uniti sono decisamente alla fine della corsa. Anzi, a dominare il mondo, saranno presto «i fantomatici Bric: Brasile, Russia, India e Cina. La ragione principale della loro fama collettiva è l’acronimo inventato da un economista della Goldman Sachs: a parte la crescita e le dimensioni, infatti, non condividono altre caratteristiche né tantomeno un obiettivo comune che vada oltre l’abitudine a opporsi all’Occidente in merito agli interventi umanitari e alle sanzioni comminate ai cattivi del momento».
Esattamente com’è già successo tutte le altre volte, cominciano a sentirsi i primi scricchioli: il Bric, Cina in testa, comincia a perdere colpi, come spiega con dovizia di dati e d’argomenti Josef Joffe in Perché l’America non fallirà, che non è soltanto un magistrale saggio di storia economica. È anche una riflessione su quello che è di gran lunga il più potente mito politico del Ventesimo e Ventunesimo secolo: il disprezzo per la democrazia debole e «imbelle», e un odio vero e proprio per la civiltà da parte dei civilizzati.
«Nell’immaginario collettivo», scrive Joffe, «gli Stati Uniti sono rimasti uno schermo diviso in due, una terribile distopia come Il mondo nuovo o un paradiso in Terra come l’Utopia di Thomas Moore. Per il resto del mondo sono dunque stati una calamita oppure un mostro. La proiezione, che sia paura o fantasia, guida la mano che regge il pennello. Sulla tela che è l’America sono sempre prevalsi due motivi, che possiamo chiamare Babilonia e Nuova Gerusalemme. L’una rappresenta la decrepitezza e l’abominio, l’altra l’energia illimitata e la speranza.
Di recente, nel 2008, speranza e «Yes, we can» sono stati il mantra della campagna di Barack Obama, una visione acclamata in tutto il mondo». Ma il declinismo, inevitabilmente, rilascerà, in futuro, nuove release. «Come smentire», infatti, «coloro che celebrano o paventano la fine dell’America? Nessun profeta di sventura è mai stato messo a tacere dai fatti, perché la profezia è intrinsecamente inconfutabile. Se il disastro non colpisce oggi e nemmeno domani, lo farà la settimana o il mese prossima, oppure l’anno successivo. I pessimisti ritornano sempre».
Diego Gabutti, ItaliaOggi 24/5/2014