Nanni Delbecchi, Il Fatto Quotidiano 24/5/2014, 24 maggio 2014
LE STORIE DI TATTI SANGUINETI L’ULTIMO DEI CINEMOHICANI
Dopo la scomparsa di Claudio G. Fava, dei suoi gilet e dei suoi papillon, che sembravano farlo uscire dalle pagine di un romanzo di Simenon, a parlarci di cinema in Tv come l’ultimo dei cinemohicani, con la competenza che nasce dalla passione, è rimasto solo Tatti Sanguineti nelle sue Storie di cinema in onda su Iris (martedì in seconda serata). Seguire Sanguineti negli excursus storici, nelle analisi guidate degli spezzoni e nelle interviste con gli addetti ai lavori significa passeggiare in uno dei rari parchi naturali della memoria collettiva sopravvissuti alla plastificazione del gusto medio che ha reso il cinema puro consumo. Appunto perciò il primo spettacolo d’archivio resta sempre lui stesso, quel suo mezzobusto irsuto e vagamente disneyano, così uguale e così opposto a quello di Claudio G. Fava.
La figura del critico cinematografico è in estinzione come quella di ogni portatore di critica, prima nemica di ogni marketing (il classico caso in cui Golia schiaccia Davide come una pulce), e Sanguineti incarna un tipo di critico particolarmente prezioso, nato nelle sale fumose e scalcinate dei cineforum del secondo dopoguerra (il suo è quello gloriosissimo di Savona), gente che si nutriva di pane e celluloide respirando nel cinema il ritorno alla libertà, l’apertura al mondo, la lotta tra le ideologie; e poi tutta la cosiddetta “politica degli autori” degli anni in cui essere dalla parte di Fellini, John Ford o Douglas Sirk separava più del gruppo sanguigno. Il cinema non era distinguibile dal luogo fisico della sala, sola oasi di magia nel grigiore implacabile della provincia, né lo si poteva distinguere dall’ansia con cui si attendeva la “prima visione”, ma anche dalle sale di seconda o di terza, dove si poteva finalmente baciare la compagna di classe seduta a fianco, e al tempo stesso di innamorarsi di Ingrid Bergman sul grande schermo.
Questa polvere di stelle brilla nei racconti televisivi di Sanguineti sia che si occupi di mostri sacri (Fellini, Hitchcock, Kubrick), sia dei funamboli del b-movie sempre in bilico tra trash e cult (Castel-lari, Fulci, Di Leo), sia che affronti le icone assolute (Mina, Monroe, Taylor), sia personaggi borderline (Campeggi, Liguori ). Il solo errore che non deve commettere è mescolarsi trafelato nella bolgia dei festival, magari con il microfono in pugno come l’ultima delle squinzie. L’ultimo dei cinemohicani deve parlare come sa dalla cattedra del suo cineforum immaginario, oppure incontrare i suoi ospiti in una vecchia sala come è accaduto con il direttore della fotografia Luca Bigazzi martedì scorso (oggi in replica). Una conversazione in cui Bigazzi ha confermato la sua fama di professionista schivo, negando l’esistenza di un suo stile (strano, in un’epoca in cui i pasticceri firmano i biscotti e i parrucchieri le messe in piega), e spiegando in modo concreto la sua idea di cinema: “Bisogna fare i film nei luoghi che si conoscono. E il punto di vista del direttore della fotografia per raccontare la realtà è quello di usare luci credibili che aiutino lo spettatore a immedesimarsi nella storia, a credere in quello che sta vedendo.” Ma Bigazzi è stato capace anche del contrario, trasfigurare la realtà per dare verosimiglianza all’inverosimile, con la straordinaria fotografia de La Grande bellezza; per alcuni (ad esempio, per chi scrive) la sola cosa davvero straordinaria del film di Sorrentino.
Nanni Delbecchi, Il Fatto Quotidiano 24/5/2014