Irene Bignardi, la Repubblica 24/5/2014, 24 maggio 2014
LO SPAGHETTI WESTERN CHE LEONE GIRÒ CON UN PUGNO DI SOLDI
E se “Per un pugno di dollari” si fosse chiamato “Il magnifico straniero”? O, più popolarmente, “Sputafuoco Joe”? O, più severamente, “Texas Joe”? E se anziché partire con il perfido Gian Maria Volonté che tormenta e maltratta una famiglia di peones indifesi, Per un pugno di dollari avesse avuto una sorta di prologo, in cui si vede il protagonista mettere insieme il suo costume, quello con cui lo vedremo per buona parte della trilogia di Leone, rubando il poncho a un inconsapevole e incolpevole messicano che sta beatamente facendosi un bagno nel Rio Bravo? Sarebbe stato uguale l’impatto? Lo straniero dagli occhi di ghiaccio sarebbe entrato in scena con un uguale cocktail di mistero e di potenza? Lo diranno gli spettatori, i filologi del cinema e gli appassionati di ogni variare di fotogrammi, che a chiusura di Cannes, e poi nelle sale, avranno la fortuna e la pazienza di rivedere tutta la Trilogia del dollaro , restaurata (e già oggetto di una polemica), da una cordata capitanata dal Cineteca di Bologna, e con il contributo di Martin Scorsese, in coincidenza con una doppia ricorrenza: il 25° anniversario della scomparsa di Sergio Leone, il 30 aprile 1989, e, cinquant’anni fa, l’uscita di Per un pugno di dollari.
Lo studio della sceneggiatura originale, a sentire gli esperti della Cineteca, apporta piccoli ma significativi tocchi in più (anche rispetto al restauro realizzato sette anni fa alla versione italiana del film dalla Ripley, che ha innescato la polemica) a una storia di cinema che è ormai diventata leggenda e che già, ancora vivo Leone, veniva ogni tanto rimessa a registro, precisata, sdrammatizzata.
Come la leggenda nella leggenda che Per un pugno di dollari fosse il primo western del cinema italiano. Era il 26°, precisava Leone, riconoscendo cavallerescamente la precedenza alla folla di registi che, a partire da Mario Amendola e dal suo Il terrore dell’Oklahoma, del 1959, per continuare con Tonino Valeri, Vancini, Fulci, Sollima, Tessari, avevano cominciato a portare il West tra Manziana, appena a Nord di Roma, e le colline desertiche ed economiche dell’Almeria. Inventando, nella generale indifferenza, un genere che Leone avrebbe portato a fama mondiale, Corbucci avrebbe immesso nel patrimonio culturale di Tarantino, e che avrebbe costretto il languente western americano a confrontarsi con temi più drammatici e politicizzati.
Nessuno se n’era accorto, sosteneva ai tempi Leone, di quei western italiani, scambiati per avanzi di magazzino americani. Era tempo di crisi, come sempre, per il cinema di casa nostra. Leone era reduce dal successo del suo primo film, Il colosso di Rodi. Aveva da poco visto Yojimbo ( La sfida del samurai) di Kurosawa, forse il film più citato della storia del cinema (ispirato a Dashiell Hammet, citato da Leone, Cimino, Kasdan, Walter Hill). Come si vede, nel mondo dell’arte, nulla si crea e nulla si distrugge. La partenza del western di Leone avvenne in sordina. Perché la Jolly puntava su un film di Mario Caiano, Le pistole non discutono, realizzato con qualche mezzo. Mentre quello che sarebbe stato Per un pugno di dollari, venne girato nella totale indifferenza, tanto piccolo era il budget, con la cresta (trenta milioni) sui soldi dell’altro, e quindi in assoluta libertà. E incassi leggendari. Ricordava anche, Leone, che sì, un primato Per un pugno di dollari l’aveva: quello di essere un western senza donne. In ogni caso, il fenomeno era nato.
Era nato con Clint Eastwood l’Uomo senza nome e con due espressioni (con e senza il cappello) che, da eroe di una serie tv e del western italiano, sarebbe diventato un’icona e il protagonista di molte stagioni importanti del cinema made in Usa. Seguirono Per qualche dollaro in più, nel 1965, e Il buono, il brutto e il cattivo nel 1966, che, potere dell’inflazione e della fama, costò la bellezza di un milione di dollari. Per arrivare infine nel 1968 a C’era una volta il West , epica, grandiosa, emozionante conclusione della singolare avventura nel mondo americano di un signore che mai padroneggiò la lingua made in Usa. E che concluse trionfalmente la sua carriera con un grande western urbano, C’era una volta in America, anch’esso restaurato dalla Cineteca di Bologna lo scorso anno.
Irene Bignardi, la Repubblica 24/5/2014