Alberto Sinigaglia, TuttoLibri – La Stampa 24/5/2014, 24 maggio 2014
“IL PICCOLO PRINCIPE AL SUONO DI BACH”
[Intervista a Mario Brunello] –
Nessun grande violoncellista aveva mai suonato in duo con un ex presidente della Corte Costituzionale. L’ha fatto Mario Brunello il 12 maggio al Regio di Torino: Sonata n. 3 op. 69 di Beethoven. Al pianoforte Gustavo Zagrebelsky. L’ha rifatto il 17 ad Artesella in Trentino, dove il maestro organizza «strani mini festival» immersi nella natura. Se l’Italia fosse degna della sua musica, tra i candidati al Quirinale l’illustre giurista occuperebbe la corsia preferenziale. L’eccezionale concerto suggellava il 27° Salone del Libro. Brunello era ospite come autore di Silenzio, il saggio appena uscito dal Mulino: «Da vent’anni cerco di approfondire questa materia, di capirla, viverla, farla diventare parte del mio mondo di musica. Oggi non ci si prende cura del tempo. Il silenzio ci sarebbe. Manca il tempo per ascoltarlo».
Silenzio è pensiero...
«E attesa e disposizione ad ascoltare se stessi e gli altri».
La musica ha bisogno di silenzio e di un luogo. Ora si ascolta in movimento.
«Teatri e sale da concerto continueranno a esistere. L’esperienza dell’ascolto dal vivo non si può sostituire: non c’è Ipod, non c’è cuffia che tenga».
Ha più vivo il ricordo della prima musica o della prima lettura?
«Della prima musica. La domenica, appena svegli, mio padre e mia madre mettevano sul giradischi un Lp. Soprattutto Bach, per organo. Anche i primi concerti risalgono a un festival organistico. Ricordo lo shock per “Volumina” di György Ligeti, sconvolgente: si sentivano tremare i banchi della chiesa. Venne Beethoven, ma la sinfonia, per me, non è la sua “Quinta”, è l’”Incompiuta” di Schubert. E venne il canto di Amalia Rodriguez, voce malinconica tra chitarre portoghesi».
Quei suoni la indussero a studiare la chitarra?
«Ah sì! Mia madre era appassionata di chitarra. E poi a Castelfranco non c’erano molti altri strumenti da studiare».
I primi libri?
«Il piccolo principe e Le leggende dei Monti Pallidi di Caspar Friedrich Wolff, folletti, gnomi e cattedrali dolomitiche. Mai avuto passione per i fumetti, mai raccolte di Topolino o di Tex. Un libro fisso stabile in camera mia, Le macchine di Bruno Munari. Mi piacevano quei congegni assurdi, che non servivano a niente, scatenavano fantasie. Il gioco delle perle di vetro, Narciso e Boccadoro... Hesse l’ho letto tutto. Mi affascinava il continuo riferimento al doppio. La famosa invasione degli orsi in Sicilia e I miracoli di Val Morel mi avvicinano a Buzzati. Leggerò tutti i suoi articoli sulla montagna, sugli scalatori. Il deserto dei Tartari sarà l’ultima cosa. Rigoni Stern arriva molto dopo: più lo scrittore della natura che quello di guerra».
Filosofi?
«Scoprii un filosofo francese in un volume rubato dalla biblioteca di mio padre, grande raccoglitore di libri. Lessi e rilessi Parola di uomo di Roger Garaudy. Preciso: era il 1975. Un po’ di demenza senile attacca anche i pensatori».
Letture musicali?
«Il Bach di Schweitzer. Il Beethoven di Dahlhaus. Mi attraevano le biografie, la storia della musica. A 17 anni ho incontrato Piero Buscaroli, professore straordinario, a doppia faccia. Della seconda non parlo. La forma sonata di Charles Rosen ha cambiato il mio modo di pensare la musica».
Il silenzio si addice alla poesia...
«Mi piace leggerla, ascoltarla come si ascolta una musica. Zanzotto lo penso con un ritmo, dentro una scelta di tempo. La Szymborska è stata una rivelazione: ha luci che si accendono. Altri autori ho scoperti con Marco Paolini, caro amico attore. Biagio Marin: ogni volta è come ascoltare un Lieder di Schubert . Noventa: questi autori dialettali riescono a dare un suono alla terra, alla cultura alla quale appartengono».
E Lorenzo Da Ponte?
«Un genio senza il quale Mozart non sarebbe stato quel genio riconosciuto universalmente. La vivacità con cui riesce a dar vita a ogni cosa lo fa somigliare ai gondolieri dei traghetti di Venezia, che in un minuto raccontano una settimana di vita veneziana».
Di Rostropovic ha amato l’arte e l’impegno. È necessario anche per lei?
«In maniera convinta e totale. Il mio modo di essere musicista è proprio quello di calare la musica nel quotidiano. Qualsiasi avvenimento va in relazione con ciò che faccio, con la musica. Se la protesta diventa esibizione, allora non mi trova più d’accordo. Gli intellettuali sanno pensare in anticipo e far passare, con il loro messaggio, il pensiero a tante persone. Questi due talenti, questi due valori devono essere messi al servizio della formazione, del benessere, cioè dello star bene, del vivere bene nel pieno senso della parola. Se all’impegno costante degli intellettuali e degli artisti rispondesse quello delle istituzioni...».
Cento anni fa nasceva Carlo Maria Giulini, figura importante nella sua carriera.
«Il primo incontro fu nel 1989 a Milano, nel giorno del suo compleanno, il 9 maggio. Per la prima volta avrei eseguito Schumann alla Scala con la Filarmonica. Un concerto che chissà quanto aveva eseguito con i più grandi solisti del mondo. Mi dedicò l’intero pomeriggio a casa sua. Ero preparatissimo, sapevo ogni nota, ogni armonia, quando il brano era stato composto. Il maestro, tranquillo, mi disse: “Bene, grazie. Adesso dimentichi tutto. Pensi solo a suonare col cuore”».
Prima della musica, con la musica quel direttore d’orchestra considerava l’umanità.
«Un sentimento che non si potrà perdere, ce lo insegna la storia, sebbene in questi cinquant’anni siano avvenuti più cambiamenti che in due millenni. La velocità delle conquiste tecnologiche non deve farci dimenticare il ritmo della nostra vita, che non può essere diverso. Lo dà il cuore, lo danno il giorno e la notte. Non bisogna far diventare tutto una valanga di spinte in avanti, uno tsunami di progresso o d’illusioni di progresso».
Se, dopo «Silenzio», scrivesse un saggio sul suono, da quale attaccherebbe?
«Da quello che sentii a Roma nell’anno del Giubileo. Quando furono aperte le porte della basilica suonarono due corni d’Africa. Mi parve di sentire un continente intero, la sua storia, un’intera umanità».
Il Salone del Libro era dedicato al bene. Per lei che cos’è il bene?
«Non me lo sono mai chiesto. Mi fido che ci sia ovunque. Non ho un’idea di bene che debba essere cercato, definito, messo in un tabernacolo».
Alberto Sinigaglia, TuttoLibri – La Stampa 24/5/2014