varie, 26 maggio 2014
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 26 MAGGIO 2014
«Lungo la costa del Maghreb si distende un ampio deserto che si chiama Libia, ma di Libia quel deserto oggi ha soltanto il nome. Lo Stato non c’è più. Se l’è portato via Gheddafi, morendo; un tessuto stentatamente unitario si è lacerato, con forze e agenti che da quel giorno di ottobre del 2011 si combattono a prendersi il potere, cioè a ricostituire uno Stato. Fin quando questo non avverrà, la piccola guerra civile che oggi si sta combattendo laggiù andrà avanti più o meno incontrollabile» (Mimmo Càndito) [1].
Breve ripasso della recente storia della Libia: dopo la caduta di Gheddafi il Paese fu governato dal Consiglio di transizione nazionale, comitato che raggruppava le opposizioni. Seguirono le elezioni e il nuovo Parlamento, il 14 novembre 2012, nominò primo ministro Ali Zeidan. Il governo Zeidan si dimostrò da subito troppo debole per controllare tutto il territorio nazionale e fu costretto ad arruolare alcune milizie per creare servizi di sicurezza semi-ufficiali, su cui però non riuscì ad imporre il controllo. Nel marzo del 2014 Zeidan venne sfiduciato, al suo posto fu nominato l’ex ministro della Difesa Abdullah al-Thinni, che dopo poco si è dimesso a cui una milizia islamica aveva assaltato la casa a colpi di Kalashnikov. [2]
A inizio maggio il Parlamento ha nominato un nuovo primo ministro, con 121 voti a favore (la maggioranza si raggiunge con 120 voti, l’elezione è stata prima dichiarata nulla per brogli e poi confermata): Ahmed Maetiq, quarantaduenne imprenditore filo-islamista appoggiato da Giustizia e Costruzione, ala libica Fratelli Musulmani (non ancora insediato); il 16 maggio l’ex colonnello Khalifa Haftar, a capo di una forza paramilitare, ha lanciato da Bengasi l’operazione Karamah («dignità» in arabo) per sconfiggere le milizie islamiste, imporre al governo di Tripoli un programma tutto legge e ordine e nominarsi uomo forte del paese. Da allora gli scontri si sono spostati fino a Tripoli [3].
Nel tentativo di fermare la crisi, la commissione elettorale libica ha deciso la data delle prossime elezioni parlamentari, il 25 giugno 2014. Il Post: «La situazione in Libia è per certi versi incredibile e unica. Per dare un’idea: prima dell’annuncio della data delle prossime elezioni, i parlamentari libici si sono incontrati in un hotel il cui indirizzo avrebbe dovuto rimanere segreto. Sull’hotel poco dopo sono caduti dei missili (non ci sono stati feriti)» [2].
Una divisione tra buoni e cattivi non ha alcun senso. Federico Varese: «Il governo ufficiale è ostaggio di milizie armate che regolarmente rapiscono cittadini sospettati di collaborazionismo con Gheddafi e li gettano in carceri segrete. Un rapporto recente delle Nazioni Unite parla di 27 persone morte per i postumi delle torture subite in prigioni governative. A loro volta, i golpisti annoverano tra le loro fila elementi liberali, ma anche individui compromessi con Gheddafi e un gruppo berbero di pessima fama per le sue violenze contro i civili» [4].
Di Khalifa Haftar Daniele Raineri aveva raccontato già lo scorso febbraio, dopo che l’ex generale aveva fatto circolare un messaggio video in uniforme in cui chiedeva alle forze armate di «salvare» il paese: «Nel 1983 era il comandante delle truppe di terra libiche quando Gheddafi ordinò l’invasione del Ciad, poi disertò e andò a vivere in America (Virginia), per tornare in Libia quando scoppiò la rivoluzione contro Gheddafi nel 2011 a cercare un ruolo di primo piano» [5].
Fino a qualche giorno fa quindi Haftar era soltanto l’ufficiale in pensione che in febbraio aveva messo in piedi una specie di golpe da operetta. «L’uomo che su Internet aveva annunciato un colpo di Stato in un paese dove – non essendoci lo Stato – il reato praticamente è insussistente. E infatti la punizione per Haftar non arrivò: il colonnello ha continuato a lavorare seguendo i suoi piani, appoggiati dalla parte anti-islamica delle milizie libiche e degli ex militari dell’esercito di Gheddafi. Le voci di Tripoli dicono che da febbraio ad oggi Haftar abbia lavorato per cercare alleanze in Libia ma anche fuori del paese, per soprattutto nell’Egitto dei generali che combattono anche loro i Fratelli musulmani» (Vincenzo Nigro) [6].
Franco Venturini: «Nel puzzle di armi e petrolio che è oggi la Libia non vai lontano se non vinci la gara a chi ha più forze e uomini. Per questo è importante che la base aerea di Tobruk e le truppe speciali di stanza a Bengasi si siano schierate con Haftar. Per questo è un segnale che la milizia di Zindan (la più numerosa dopo quella di Misurata) si stia coordinando con il generale. E per questo contano gli appoggi che Khalifa Haftar dovrebbe aver maturato in Usa e Egitto» [7].
L’offensiva di Haftar può infatti contare sull’appoggio quantomeno politico dell’egiziano al Sisi, che ha deciso di sradicare i Fratelli musulmani a est, in Libia, come già tenta di fare a ovest, nella Gaza di Hamas. Carlo Panella: «Haftar ha tutte le caratteristiche del generale arabo del Novecento: non ha mai vinto una guerra, nemmeno una battaglia, si è formato nell’Accademia militare di Mosca, ha cambiato bandiera innumerevoli volte e circolano parecchie voci sul suo passato impiego come agente della Cia. Tanto basta per farne un candidato ideale del rais egiziano al Sisi, ben più giovane, ma con carriera e caratteristiche non dissimili» [8].
Avere il potere in Libia significa controllare i ricchi bacini petroliferi. «Chi tiene in mano il rubinetto dei terminali gestisce la sovranità. È una sovranità che sarebbe assai azzardato definire “nazionale”, posto che le tre componenti territoriali unificate dal colonialismo italiano (Tripolitania, Cirenaica, e Fezzan) hanno potuto convivere per i quarant’anni del potere di Gheddafi soltanto perché questo potere era ferocemente dittatoriale» (Mimmo Càndito) [1].
Significativa è l’assenza dell’Europa e degli Stati Uniti, che insieme alla Francia, alla Gran Bretagna e ai loro alleati arabi hanno abbattuto il regime del Colonnello per poi abbandonare il Paese al suo destino. «L’amministrazione Obama e la Nato portano la responsabilità del caos libico: sono entrati in campo per sbalzare dal potere Gheddafi ma se ne sono andati via subito, senza preoccuparsi della sicurezza e di insediare un nuovo ordine», scriveva nei giorni scorsi il Washington Post [9].
Il Pentagono, intanto, ha raddoppiato le forze d’intervento rapido pronte nella base di Sigonella, in Sicilia, in caso d’evacuazione d’emergenza dell’ambasciata americana a Tripoli: otto aerei a decollo verticale Osprey, circa trecento marine [3].
Il governo saudita ha chiuso la sua ambasciata a Tripoli. La stessa decisione è stata presa dall’Algeria, che ha anche imposto maggiori controlli lungo il confine con la Libia, e dagli Emirati Arabi. A risentire del caos è inevitabilmente anche il settore energetico. La compagnia di Stato algerina Sonatrach e il colosso francese Total hanno disposto il rientro di buona parte del personale operativo in diversi siti libici [7].
Ogni volta che si presenta l’occasione – da ultimo in marzo alla Conferenza di Roma – l’Italia viene indicata come un Paese-guida della Libia futura ma senza avere né l’autorità né i mezzi per ricostruire sulle macerie lasciate da altri. «Basti pensare alla questione dell’immigrazione clandestina – dalla Libia arriva sulle nostre coste il 90% dei migranti – che Tripoli usa come uno strumento di pressione esattamente come ai tempi di Gheddafi e allo sgretolamento di un’amministrazione che rischia, oltre al fallimento politico, quello finanziario, perché la produzione di petrolio è crollata in un anno da 1,5 milioni a meno di 250 mila barili al giorno e in pochi mesi Tripoli ha perso 10 miliardi di dollari di entrate: se frana anche lo stato assistenziale, lubrificato dall’oro nero, la Libia va diritta verso l’anarchia» [9].
Note: [1] Mimmo Càndito, La Stampa 24/5; [2] il Post 21/5; [3] Daniele Raineri, Il Foglio 20/5; [4] Federico Varese, La Stampa 22/5; [5] Daniele Raineri, Il Foglio 14/2; [6] Vincenzo Nigro, la Repubblica 20/5; [7] Franco Venturini, Corriere della Sera 20/5; [8] Carlo Panella, Il Foglio 23/5; [9] Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 20/5.