Mimmo Càndito, La Stampa 24/5/2014, 24 maggio 2014
LA GUERRA ALLARGATA CHE UCCIDE LA LIBIA
Lungo la costa del Maghreb si distende un ampio deserto che si chiama Libia, ma di Libia quel deserto oggi ha soltanto il nome. Lo Stato non c’è più. Se l’è portato via Gheddafi, morendo sotto le bombe della Nato; un tessuto stentatamente unitario si è lacerato, con forze e agenti che da quel giorno di ottobre del 2011 si combattono a prendersi il potere, cioè a ricostituire uno Stato. Fin quando questo non avverrà, la piccola guerra civile che oggi si sta combattendo laggiù andrà avanti più o meno incontrollabile. E i 250 marines trasportati in gran fretta a Sigonella servono solo a far la guardia all’ambasciata americana di Tripoli, ma è uno stand-off da faccende su cui non hanno alcun piano operativo, né loro, né purtroppo la Nato e l’Europa che temono la trappola della guerra che essi stessi fecero nel 2011 senza avere in mano nemmeno una cartellina d’analisi del dopo-Gheddafi.
Le forze che si stanno battendo sul terreno, sono le stesse che Gheddafi teneva nelle sue mani con elargizioni pacificanti: anzitutto e soprattutto i clan tribali, che hanno un forte radicamento localistico nelle varie parti del territorio «nazionale», e talvolta possono anche integrare – ciascuno - la propria autonomia con componenti «esterne», ma senza che queste scelte occasionali possano mai intaccare la struttura identitaria. Alleanze tattiche, insomma, ma nulla di più. I clan e le alleanze hanno come obiettivo il consolidamento del proprio potere: in quel deserto vuoto, il potere è il controllo dei ricchi bacini petroliferi; chi tiene in mano il rubinetto dei terminali gestisce la sovranità. E’ una sovranità che sarebbe assai azzardato definire «nazionale», posto che le tre componenti territoriali unificate dal colonialismo italiano (Tripolitania, Cirenaica, e Fezzan) hanno potuto convivere per i quarant’anni del potere del Colonnello soltanto perché questo potere era ferocemente dittatoriale.
Morto il Colonnello, la legge del territorio ha squassato via le strutture «nazionali», e così le tensioni intertribali hanno ripreso a manifestarsi senza controllo, ma con un elemento di forte aggravamento: la pesante militarizzazione promossa dalla guerra della Nato (e del Qatar) e il selvaggio approvvigionamento dagli immensi depositi che Gheddafi aveva messo su in ogni angolo del Paese. Oggi, quasi un milione di miliziani fa il bello e il brutto tempo.
In questo scenario, dove ogni tentativo di stabilizzazione istituzionale è andato a ramengo, si è ora inserito un fattore che Gheddafi aveva duramente contrastato con il potere personale del suo Libretto Verde: l’Islam libico, cui il fallimento delle primavere arabe ha dato una spinta risolutiva nella ricostruzione delle proprie ambizioni egemoniche (Derna, in Cirenaica, è uno dei grandi santuari del jihadismo, e la più forte componente «nazionale» dei jihadisti che hanno combattuto in Iraq era, proporzionalmente alla demografia, quella dei libici). Oggi la guerra libica integra le componenti claniche con quelle islamiche, e lo scontro tra «laici» e «jihadisti» si offre come un ulteriore aspetto della polarizzazione politica che trascina con sé gli schieramenti delle tribù; le tensioni alla frontiera con l’Egitto di Morsi e l’Algeria di Buteflika riflettono la natura di questa «guerra allargata», che in uno scenario di interdipendenze integra l’islamismo fondamentalista che opera nel Maghreb con le rivalità e le ambizioni regionali di Qatar, Arabia Saudita ed Emirati. La tecnocrazia petrolifera nata con Gheddafi non ha poteri reali, ma deve riconoscere la clanizzazione del Paese; e i pozzi oggi sono quasi all’asciutto (190 mila b/d rispetto al milione e mezzo del passato). La guerra va avanti, aspetta il vincitore.