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 2014  maggio 22 Giovedì calendario

IL PIÙ GRANDE E FLUVIALE SCRITTORE CHE NON AVETE MAI LETTO


Somiglia a una rockstar più che a uno scrittore. E, come ogni rockstar che si rispetti, ha due ordini di problemi: un rapporto conflittuale tra pubblico e privato e una storia di dipendenza. Solo che non fa concerti sold out al Barclays Center, non pubblica dischi che prendono 10.00 su Pitchfork e non finisce sulla copertina di Rolling Storie. Potrebbe: ha quella fisicità, ha quei tormenti. Ma Karl Ove Knausgård fa letteratura. Anche buona, per lo più. Nato e cresciuto in Norvegia e ormai residente in Svezia, lo scrittore dall’aspetto di una vecchia gloria della new wave ha fatto impazzire i suoi connazionali con Min Kamp (in italiano sarà tradotto come La mia battaglia), un ciclo di libri in cui affronta nient’altro che la sua banalissima e tediosissima vita. Il titolo in norvegese è identico a quello del Mein Kampf, il memoriale di Hitler. Dietro la provocazione nasconde una cristallina ovvietà: non sarà eroica, una vita spesa tra pannolini e passeggini, ma è comunque una battaglia. E se non va celebrata, va quantomeno ricordata.
Da quando ha pubblicato i sei volumi di Min Kamp tutti vogliono un pezzo di Karl Ove Knausgård. Non che fosse uno sconosciuto prima: a trentasei anni aveva già pubblicato due romanzi (uno dei quali sulla Bibbia e sugli angeli), vinto dei premi e ottenuto il favore della critica. Ma non era stato ancora investito da tutti i crismi dello stardom (i fan, i media antagonisti, il disprezzo che ne consegue), non riempiva le arene e Zadie Smith, Jeffrey Eugenides e Jonathan Lethem ancora non si sperticavano in elogi. E così, colto da una non meglio precisata insoddisfazione, lo scrittore ha abbandonato la moglie, si è trasferito in Svezia, ha sposato una scrittrice su cui fantasticava da tempo ed è diventato padre di tre bambini. E all’età di trentanove anni si è messo a lavorare sul primo volume di Min Kamp. Tra il 2009 e il 2011, tra un cambio di pannolini e una fastidiosa festa di compleanno, Knausgård ha scritto venti pagine di prosa al giorno, per un totale di quasi 3.500 pagine.

Alla ricerca del realismo perduto
In Norvegia, una nazione di cinque milioni di persone, i libri hanno venduto mezzo milione di copie. Significa che un norvegese su dieci si è portato un pezzo di Knausgård a casa, se non in ufficio. Cosi come sui social vige il divieto di spoiler all’indomani di una qualsiasi puntata di una serie televisiva, per un certo periodo nei luoghi di lavoro di Oslo e dintorni sono state indette delle giornate Knausgård free. A quanti scrittori che non parlano di maghi e di sette regni capita una cosa così? Va anche detto che la Norvegia è il Paese in cui spopola la slow tv e dove la televisione di Stato, la Nkr, ha mandato in onda minuto per minuto le 134 ore di un viaggio in crociera senza istigare lo spettatore a cambiare canale (o a togliersi la vita). I numeri di Min Kamp sono importanti non solo perché rendono conto dell’estensione del fenomeno, ma anche perché sono all’origine di un ottuso equivoco: non basta la mole dei libri per tirare in ballo Alla ricerca del tempo perduto. E non basta neanche il fatto che l’opera sia in gran parte un esercizio di memoria. Marcel Proust non ha mai dovuto confrontarsi con la televisione, né con Google. Knausgård, seppur inconsciamente, sì.
In una delle rare interviste concesse dal villaggio in cui vive in esilio come un reduce che deve smaltire lo shock post-traumatico da reality («Qui della letteratura non gliene importa niente a nessuno», dice), lo scrittore ammette che a orientarlo verso l’autobiografia è stato un senso di nausea nei confronti di un mondo congestionato da storie. Detto altrimenti, la fiction aveva iniziato a fargli schifo. Un giorno i suoi esegeti indugeranno a lungo sulle cause che lo hanno portato a intraprendere un’opera di denudamento pubblico di questa portata invece di limitarsi a scrivere un romanzo deprimente e autobiografico come qualsiasi autore più banale o sano di mente avrebbe fatto al posto suo. Non che la vita di Knausgård sia da rotocalco: a parte un rapporto troppo intimo con l’alcol, un padre negligente, una moglie bipolare e la noia di essere genitore. Min Kamp è un memoir atipico perché fa tutto tranne che basarsi sulla straordinarietà dell’esperienza. Ma qualsiasi retroscena familiare, se sviscerato con l’onestà di cui è capace e soprattutto in tempo reale, diventa sensazionale. Se sua moglie impazzisce, Knausgård lo scrive. Se sua nonna viene ritrovata in condizioni animalesche, Knausgård lo scrive. Se suo padre, ingombrante quanto quello di Kafka, sul tavolo dell’obitorio diventa né più né meno di un oggetto («Mio padre si è preso quel che doveva arrivare, era una buona cosa che fosse morto, e qualsiasi parte di me affermasse il contrario stava mentendo»), Knausgård lo scrive. Gli unici episodi davvero crudi sono quelli in cui lui e il fratello sono costretti a pulire la casa della nonna dagli escrementi della donna ormai incontinente, o quelli in cui si ritrovano a gestire la morte del genitore – un insegnante impegnato in politica – scopertosi alcolizzato. O quando nel secondo volume (intitolato A Man in Love nell’edizione americana) la moglie viene descritta come l’amore di una vita ma anche come una maniaca deprimente e depressa che nessuno vorrebbe accanto.

Un patto faustiano
La scrittura autobiografica lascia sempre feriti sul campo. Nel caso di Knausgård il bilancio è particolarmente sanguinoso: un ramo familiare totalmente disconosciuto, una suocera incazzata, la moglie ricoverata. Resta una percentuale trascurabile di eventi, se paragonata alla mole dei volumi. Il resto sono tutte interazioni quotidiane minime: bustine di tè e peni da raddrizzare, Knausgård che legge Adorno o piange davanti a un quadro di Constable. Ma di cattiveria c’è n’è abbastanza per offendere la morale di chiunque.
Quando leggiamo Alla ricerca del tempo perduto, non andiamo a cercare Albertine o Madame Verdurin su Google, e se lo facciamo non ci aspettiamo niente di più che un rimando a Wikipedia e un’illustrazione. Invece eccola lì, la famiglia di Knausgård, un albero genealogico della vergogna in link, fotografie e dichiarazioni da far girare la testa a Sandro Mayer. I pettegolezzi sono l’aspetto meno importante e duraturo di Min Kamp, ma sono importanti lo stesso perché siamo portati a giudicare la celebrity culture o del real time in termini di morbo o di patologia, ma raramente ne parliamo in termini di metodo. Invece Knausgård ha creato un cortocircuito nuovo: quando descrive come ha incontrato l’attuale compagna, non fa altro che fare infuriare la prima moglie, che scopre i dettagli di questa situazione in lettura nazionale e lo trascina in radio per un confronto a due, un fatto destinato a esercitare delle conseguenze su tutta l’opera. L’autore a un certo punto inizia a scrivere sapendo di essere letto, così come il Rembrandt evocato nel primo libro dipinge se stesso sapendo di essere visto. In più di una circostanza l’autore ha ammesso di aver stretto un patto col diavolo: voleva fare un grande romanzo, ma aveva una vita piccola. Se avesse promesso di scrivere la verità, nient’altro che la verità, sarebbe stato ricompensato?

La mia vita senza stile
Min Kamp è a tratti sublime e a tratti noiosissimo, proprio perché è una vita, con i suoi asintotici abissi e le sue distese di niente. Ma attraverso strati progressivi di tedio radicale, qualcosa si illumina. In sé per sé, l’idea dietro ai libri non è clamorosa né innovativa; Knausgård non è il primo che cerca di mettere una vita in un romanzo, fosse anche una vita stupida. Ma se i grandi romanzieri lo hanno fatto a partire da una scrittura ricercata e metaforica, lui si muove lungo il principio opposto: non è che scrive male, scrive neutrale. A volte in maniera persino sciatta: ci sono autori che piuttosto che farsi beccare a scrivere cose come «l’amore mi aveva colpito come un fulmine» preferirebbero farsi cogliere davvero da un fulmine. Lo scrittore descrive ogni dettaglio infinitesimale – vedi la forma dei candelieri durante la cena di Natale – come se volesse dimostrare fino a che punto il realismo può diventare illeggibile e finisce col diventare una specie di idiot savant della nostra letteratura, scambiato per la rockstar che non è, e anche per il genio che non è. Knausgård è come quell’amico che nel raccontare un aneddoto non arriva mai al dunque, ma nella digressione ci ipnotizza. È novecentesco, ma sotto la sua lingua pacata e nuda non c’è niente di novecentesco, perché replica gli stessi meccanismi che si innescano quando guardiamo un reality: la stordita dipendenza verso il modo in cui i personaggi si lavano i denti o si grattano lo stomaco a letto o canticchiano cose stupide in giardino. La saga, ammesso che sia legittimo chiamarla così, inizia con una voce fuori campo che descrive le dinamiche di un arresto cardiaco e fa pensare più all’intro di Grey’s Anatomy che a qualsiasi capolavoro letterario. Ma forse è solo perché da lettori ormai siamo disabituati a una narrazione così piana. Nelle prime pagine scrive: «È il ventisette febbraio. Sono le 11.43 di sera. Nel momento in cui scrivo io, Karl Ove Knausgård, nato nel dicembre del 1968, ho trentanove anni. Ho tre figli – Vanja, Heidi e John – sono al mio secondo matrimonio con Linda Bostrom Knausgård. Tutti e quattro dormono nelle stanze attorno a me, nell’appartamento a Malmo dove viviamo da un anno e mezzo». Il tono ricorda quello di un malato di tisi sofferente in cambusa, ma Knausgård non è un eroe romantico. Semmai è Dostoevskij per come ti fa entrare nelle cose e Sant’Agostino per il tormento con cui ne vuole uscire.

Non sono più un autore
Da quando David Shields ha pubblicato Fame di realtà nel 2010, siamo circondati da prodotti letterari mediocri legittimati perché parlano della vita reale. Sono anni che leggiamo saggi sull’autodisprezzo di Louis C.K. e di Lena Dunham e la loro influenza sul racconto autobiografico, anni che leggiamo articoli sulla new sincerity e ci sorbiamo le teorie di Bret Easton Ellis sul post-empire dopo il collasso di Charlie Sheen in diretta televisiva. Ora invece spunta un autore che quasi sicuramente non legge questi articoli, non guarda questa televisione, non partecipa a dibattiti dai nomi altisonanti tipo «Cronaca finta di una storia vera», ma scrive l’opera in cui tutto questo precipita. Ogni tanto arrivano dei romanzi che ci dicono a che punto siamo. Min Kamp è uno di quei libri. Non è bello, ma è epocale. Soprattutto se è vero che è la sincerità, e non l’ironia, l’ethos del nostro tempo. In tutto il suo «sono andato in cucina – mi sono fatto un tè – ho spremuto la bustina – ho addentato una sardina prima dal lato destro e poi da quello sinistro» c’è una frustrazione che alla lunga ci fa venire voglia di essere più attenti alla nostra vita e di abitarla meglio. Non è una cosa che ha a che fare con la felicità, che non è mai stata l’obiettivo della scrittura o della vita di Knausgård: è una cosa che ha a che fare con il significato, o meglio ancora con la sua assenza. È il motivo per cui i lettori lo adorano: perché umiliandosi e banalizzandosi, li eleva. Tacciato di essere stato disumano con i suoi, Knausgård è stato fin troppo umano con tutti gli altri. L’ultimo volume si chiude con la dichiarazione: «Sono felice di non essere più un autore». Dal suo ritiro svedese, però, Knausgård fa sapere che non ha smesso di scrivere: si è solo riappacificato con la fiction. Forse farà un romanzo stile Borges, forse stile Calvino. Come se avesse una vita, dopo tutto questo. Il diavolo, evidentemente, non è ancora andato a chiedergli il conto.