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 2014  maggio 23 Venerdì calendario

CLAMOROSO AL JATIDIRI STADIUM

«Se vuoi fare il calciatore, il calciatore tu lo devi e lo puoi fare ovunque. E dal mio punto di vista la Serie A è la Serie A in tutto il mondo». Sono le prime 32 parole che mi dice Alessandro Magni, nel suo ufficio di Lecco, una bella e classica palazzina novecentesca fronte lago, una mattina di febbraio grigia e piovosa, molto pittorescamente brianzola. Sono 32 parole che suonano molto programmatiche, come un biglietto da visita, una frase preparata da estrarre con un sorriso cinematografico che Alessandro, in effetti, possiede e sfoggia. La domanda che gli ho fatto è banale: «Raccontami come hai iniziato». A fare cosa? A fare il procuratore calcistico, che è un mestiere molto normale, alla prima lettura. La particolarità di Alessandro Magni, però, è il suo “portfolio”: ha curato e tuttora cura gli interessi di calciatori in Indonesia, Bulgaria, Grecia, Armenia, Paraguay. L’altra particolarità è che questi calciatori, che prima di essere calciatori sono ragazzi poco più che ventenni, sono tutti italiani. Questo pezzo parla di loro, delle loro storie che sono di solito storie estremamente sconosciute, e di un fenomeno di emigrazione di veri e propri precari del calcio, affascinante e sempre più in espansione. Le loro parole registrate sul mio iPhone durante svariate telefonate sono state trascritte qui senza nessun editing sintattico, per lasciare l’autenticità del ricordo, l’autenticità della loro personale visione, direi genuina, dei luoghi in cui sono andati a vivere e lavorare per mesi o anni, luoghi in cui probabilmente non avrebbero mai pensato di finire.

C’è una scenografia di colori e ambientazioni particolare a cui ho pensato da subito quando ho incontrato le storie di Simone Quintieri, un anno e mezzo in Indonesia, Alessandro Beccaria, sei mesi a Bali, Davide Cortina, attualmente nelle Filippine, Massimiliano Ammendola, in Paraguay, Alessandro Marchetti in Armenia, e via dicendo (nota: non tutti sono curati dalla AM Sports di Alessandro Magni). È una scenografia esotica: è lo sfondo de La trilogia Malese di Anthony Burgess, forse uno dei più grandi, e di sicuro uno degli ultimi, romanzi di letteratura coloniale. Nel libro (che in realtà consta di tre libri) si raccontano vita, amori, separazioni, litigi e problemi di vita, costumi e abitudini di Victor Crabbe, insegnante inglese spedito dalla burocrazia dell’Impero ai confini Sud-Est asiatici del planisfero, più o meno a metà Novecento. L’Italia, da parte sua, non ha mai avuto una vera letteratura coloniale né un impero paragonabile a quello inglese, e non ha mai avuto una spinta di emigrazione paragonabile a quella inglese in Asia, o a quella francese in Nord Africa. Nel 2008 Enrico Brizzi ha immaginato nel libro L’inattesa piega degli eventi una realtà alternativa (un’ucronia) in cui, in un mai esistito 1960, l’Impero fascista è cosa esistente e piuttosto solida, e ha dipinto il panorama di un campionato calcistico chiamato “Serie Africa”, in cui si alternano squadre autoctone e squadre composte da “soli giocatori bianchi”. L’Italia, in realtà, è sempre stata un paese tra i più statici in materia di espatri calcistici. Ha importato da sempre moltissimo, ma non esportava, quasi mai a parte poche significative eccezioni. I casi di Gianluca Vialli, Gianfranco Zola, Pierluigi Casiraghi, Roberto Di Matteo, Fabrizio Ravanelli (tutti andati negli anni ‘90 in Inghilterra) sono ancora oggi ultra-citati e antonomastici proprio perché rari. Poi Marco Verratti, dal Pescara al Paris Saint-Germain, Mario Balotelli dall’Inter al Manchester City, Fabio Borini da Roma al Sunderland. Ma i protagonisti sono tutti giocatori all’estero ambìti, pezzi di lusso, e le destinazioni sempre le solite, tranquille e rassicuranti inghilterre, france, spagne e germanie. Damiano, Simone, Alessandro, Massimiliano e gli altri hanno scelto di cambiare continente, o di andare nell’ex Urss, di attraversare un oceano. Perché «la Serie A è la Serie A in tutto il mondo», e perché la globalizzazione del calcio, oltre a noiosi sceicchi qatarioti o rubicondi presidenti indonesiani, significa anche questo, fare le valigie ogni sei mesi, fare più chilometri di volo in un anno di quanti ne faceva Madonna negli anni Ottanta, quando si narra volasse dagli Stati Uniti a Manchester ogni weekend per le notti imperdibili e lisergiche dell’Hacienda.

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Il primo nome che ho incontrato nella mia ricerca di questi italiani con la valigia e le scarpe con i tacchetti, esploratori singolari ed esportatori di quello che in Italia si dovrebbe iniziare a vedere meno come un verbo divino e più come un lavoro normale in tutto e per tutto (soluzione: il calcio) è quello di Simone Quintieri, trentadue anni, nato a Cosenza a marzo nel 1982, una carriera tra Lega Pro e Serie D, poi la scelta drastica e rivoluzionaria, a ventotto anni nel 2010, di accettare l’offerta del Semarang United di Semarang, quattro milioni di abitanti sull’isola di Giava, Indonesia, una storia ricca e complicata fatta di invasioni cinesi, sultanati musulmani, acquisizioni olandesi e britanniche, e una forte – un tempo – presenza comunista. Da Barcellona Pozzo di Gotto, città sede della sua ultima squadra italiana, l’Igea Virtus, quarantamila anime sul mar Tirreno in provincia di Messina, è un salto lungo, complicato, acrobatico e difficilissimo. Simone deve averlo eseguito perfettamente se quando lo chiamo mi dice con una voce malinconica: «A Semarang ho lasciato il cuore, per me è una casa». C’è una domanda che ho fatto a tutti i ragazzi e calciatori con cui ho parlato per questo articolo: cosa hai pensato quando hai realizzato che stavi per partire e vivere in una parte del mondo completamente sconosciuta? Per Simone, che aveva quasi trent’anni e avrebbe voluto chiedere molto di più a una carriera che non l’ha mai portato dove si aspettava di andare, l’Indonesia è stata la grande opportunità. Con paure iniziali: «Mi ricordo che c’era mia sorella a Roma che piangeva perché diciamo è stato un cambio drastico, non sapevo cosa mi aspettava, non sapevo niente» dice.

«L’arrivo in aeroporto è un giorno che non scorderò mai, sono stato bloccato in aeroporto al mio arrivo, non lo dimenticherò fino all’ultimo giorno della mia vita» dice ancora, dopo avermi confessato che tutto quello che sapeva dell’Indonesia l’aveva imparato grazie a delle vaghe ricerche su Google, e adesso mi sembra davvero che abbia la voce rotta dall’emozione. «Duecento persone, tutte le transenne, me lo ricordo ancora come se fosse oggi, poi i canti degli ultrà, poi quelli fuori a seguire la macchina, insomma sono scene che…», sta parlando per immagini e per ricordi, si ferma, poi prosegue, «per me che non ho mai vissuto grandi palcoscenici, che non avevo mai visto stadi di 60 mila persone pieni… Mi sono detto: qui mi sta cambiando la vita».

C’è un altro Quintieri che fa il calciatore, è un altro che dopo (pochi) anni di Serie B e D ha scelto di andare a Tallinn, in Estonia, a vincere il campionato e a giocare la Champions League e l’Europa League. Si chiama Damiano, e non è parente di Simone, ed è il numero 9 del Nõmme Kalju. Lui è partito dall’Italia invece giovane, a 21 anni, lasciando il Valle Grecanica, provincia di Reggio Calabria, per la più settentrionale delle repubbliche baltiche. In Champions League (cioè nei preliminari: però la musica prima dell’inizio, quella epica che dice «the champions!» la mettono comunque, e vuoi mettere con Valle Grecanica?) ha giocato quattro partite e segnato tre volte, la prima nella vittoria, in casa, contro l’HJK Helsinki, il goal decisivo per vincere 2-1 e passare il turno. Poi una doppietta a Plzeň contro il Viktoria, nella sconfitta del Nõmme per 6-2. «All’inizio è stata dura», mi dice quando gli chiedo di raccontarmi l’arrivo a Tallinn. «È stata dura perché sono arrivato qui e non conoscevo nessuno, non parlavo la lingua e all’inizio ero in albergo, anche in allenamento era difficile capire quello che l’allenatore chiedeva, dovevo sempre aspettare e guardare gli altri e quello che facevano. La prima settimana ho pensato di tornare indietro. Perché vedevo tutto buio, tutto difficile, sia la lingua sia le cose stupide: il mangiare, la famiglia, gli amici». Poi il campionato, la musica della Champions League, e ora Damiano dice che «questi primi due anni sono andati benissimo, sia a livello personale sia a livello di squadra». E che a Tallinn si sta bene, ma dopo tre goal in Champions League, per uno che al massimo aveva fatto una singola presenza in B con il Pisa, «c’è l’ambizione di crescere ancora di più, quella c’è sempre sennò saresti morto. Sono fiducioso e non mollo». In Italia o no non importa, dice poi.

Alcune delle altre prime parole che mi dice Alessandro Magni dopo quelle iniziali 32, sono: «Quello che io dico sempre ai giocatori è questo: tu probabilmente in Italia non tornerai mai più da calciatore, ma è così importante per te? Se domani partiamo, e andiamo a giocare in Serie A in Bulgaria, poi dalla Bulgaria in Serie A in Grecia, dalla Grecia andiamo in Paraguay, dal Paraguay alla Svizzera, che ne sai poi che dalla Svizzera non ti si aprano i mercati di Francia e Germania? Perché mai poi rimarresti, per fermarti e supplicare di entrare in Lega Pro a un quarto di quanto guadagni all’estero? Se hai scelto che il calcio è il tuo lavoro, oggi ritengo che il tuo lavoro tu lo possa e lo debba fare dove hai gli sbocchi migliori».
Una parte del programma di viaggio che Alessandro ha snocciolato in un modo che all’inizio reputo casuale è in realtà la vera carriera di Massimiliano Ammendola, nato nel 1990 a Napoli, ora al Sol de América di Asunción dopo essere passato dal Botev Vraca, una piccola città dell’entroterra bulgaro, e dall’Iraklis Psachna, squadra dell’isola Euboea, la seconda isola più grande della Grecia dopo Creta, che gioca la Serie B greca. Ammendola aveva anche esordito in Serie A con il Napoli allenato da Walter Mazzarri, aveva anzi fatto tutta la stagione allenandosi con la prima squadra, una squadra con i sudamericani Cavani, Lavezzi, Campagnaro. Da Asunción Massimiliano (ha impostato come immagine del profilo di WhatsApp il logo del Sol de América) mi dice che da napoletano è stato molto facile integrarsi in Paraguay, confermando il cliché che vuole i napoletani molto imparentati con i sudamericani in termini di usi e costumi. «Io ero molto scettico sulla decisione di andare in Sud America» mi dice una mattina presto, appena dopo gli allenamenti che ad Asunción devono iniziare alle 6:30, prima che il sole scaldi fino a quaranta gradi il Barrio Obrero, il più famoso e popolare della capitale, sede anche di Cerro Porteño e Club Nacional, «non ero mai stato fuori dall’Europa, e prima di prendere l’aereo ci ho pensato una settimana. Però mi ha sempre affascinato, vedevo il campionato brasiliano, il campionato argentino, e poi la Copa Libertadores, ero entusiasta di poter giocare contro giocatori como Ronaldinho». Dice come se fosse naturale como, e non come, non glielo faccio notare ma mi fa sorridere. Il Sol de América ha annunciato l’arrivo di Massimiliano sul suo sito con il titolo “Benvenuto ragazzo”, e Massimiliano è anche un pioniere, è il primo italiano, ma anche il primo europeo, a giocare in Paraguay. Quando si parla dell’Italia, della sua partenza e di quello che ha lasciato l’entusiasmo si smorza. Dice, un po’ confuso, o forse solo con poca voglia di affrontare il problema: «Con le regole che ci sono in Italia ci stanno, come ti posso dire, un po’ di problemi, soprattutto in Lega Pro, dove devono giocare gli “under”, non c’è meritocrazia. E io ti ripeto che come calciatore dove vedo la possibilità di poter giocare e di potermi mettere in mostra non sto a vedere se è Paraguay o Spagna», poi torna di buonumore, dice «anche perché noi calciatori solo questo sappiamo fare», e ride.

Il problema con la Lega Pro in Italia è uno dei problemi legati sempre all’imposizione dall’alto di un certo tipo di quote, che siano rosa, giovani, o di qualunque altro tipo. In questo caso il problema sono i giovani, anzi gli “under”. Me lo spiega, pochi giorni dopo, sempre a Lecco, Alessandro Magni. «La riforma sbagliata è stata quella del cosiddetto “minutaggio”, che è la decisione di valorizzare e quindi pagare un contributo economico “a minuti” alle società che fanno giocare i giovani. Così si è aperto un mercato che è in realtà un mercanteggiare euro per euro al minuto per giocatori che quando escono dall’età da minutaggio non sono davvero giocatori di calcio, sono giocatori ai quali è stato fatto credere di poter fare i professionisti. Questo ha drasticamente abbassato la qualità del gioco in Italia, questo ha distrutto a livello qualitativo il calcio, perché tu fai credere a un ragazzino di poter fare il professionista solo perché ha 17 anni e porta 1.200 euro a partita. Quando quei soldi tre anni dopo non li porti più, quando di anni ne hai 21 e sei un giocatore di Lega Pro ma non hai le qualità per fare la Lega Pro, cosa succede? Questo ha tolto spazio a giocatori più forti che meritavano di giocare e che nel frattempo hanno dovuto dirottare la loro carriera tra Serie D ed estero, ma soprattutto ha creato e crea dei disoccupati».

La scelta probabilmente più singolare tra quelle che incontro è quella di Alessandro Marchetti. Lui non ha scelto di andare in Indonesia, dove il calcio è diverso ma vissuto con un entusiasmo e una religiosità molto europei, non ha scelto il Sud America che esporta calciatori come una delle risorse primarie da sempre, ma ha scelto l’Armenia. Dopo le giovanili nel Livorno, nella città in cui è nato, terminate nel 2006, dopo un vagare anno per anno tra la Serie D e la Lega Pro, da Casale Monferrato a Lucca, a Legnano, ad Alessandria, è partito per il Botev Vraca e poi per Martuni, sede dell’Alashkert Football Club, centotrenta chilometri da Yerevan, capitale del Paese. Dalla recente storia italiana fatta di ducati, dominazioni viscontee, sabaude, tutt’al più paci di Costanza e trattati di Cateau-Cambresis, da rinascimenti e risorgimenti, cavalieri, gonfaloni, da Bassa Padana e risaie, mondine, Resistenza e nuovi poli industriali, all’Armenia. Martuni, anzi Yerevan perché è lì che gioca le partite casalinghe l’Alashkert, parla innanzitutto di monte Ararat, che domina il panorama e sulla cui cima – dice la leggenda – si troverebbero i resti dell’Arca di Noè, parla di dominazioni arabe, del conquistatore Tamerlano, di Impero Ottomano, russo e Unione Sovietica. Alessandro Marchetti, più prosaicamente, è finito all’Alashkert chiamato da un ex compagno di giovanili al Livorno, l’armeno Ara Hovhannisyan, capitano della squadra. «Ho colto subito l’opportunità» mi dice da un numero di telefono italiano (oggi gioca al Savona), «è stato un grande colpo per la mia carriera, nonostante la squadra fosse sconosciuta era un ottimo campionato, c’era molta visibilità, c’è lì vicino la Turchia, l’Iran dove girano tantissimi soldi». L’Iran, dico io. Mi faccio scappare un’espressione di sincero stupore, o meraviglia. Ma tu ci andresti a giocare in Iran? Certo, ci andrei, dice lui. Poi: «A livello di impatto culturale l’Armenia è un paese eccezionale, proprio eccezionale» racconta, «poi io sono uno molto affascinato dal visitare i luoghi, quindi nei giorni liberi sono andato subito in giro a visitare i monumenti, i quartieri, le città e… c’è un distacco abissale, non c’è una classe media, c’è il lusso, che è la capitale, si concentra tutto lì, la proprietà che ci avevano dato, e poi c’è la povertà, ma una povertà… a livelli grossi nelle cittadine limitrofe. È veramente un distacco grande». Quello che non ha funzionato bene, dice Alessandro, è il rapporto con la società, mentre filava tutto liscio con l’Armenia, con gli armeni, con la vita di Yerevan. «I problemi però ci sono da tutte le parti», dice poi riflessivo, «ci vuole coraggio, in Armenia ci è voluto coraggio, per noi è un lavoro, se ami il tuo lavoro alla fine non vai in guerra, cioè io mi sono sempre detto che ci sono persone che vanno in guerra e non sanno quando tornano. Io ho la fortuna di andare a fare una cosa che amo, dove guadagno, dove non ho grossi problemi». Mi dice ancora (parla molto, come quasi tutti: hanno tutti una storia unica da raccontare, e sembrano felicissimi di farlo) che l’estero rimane una soluzione ideale per il prossimo anno, a lui piacerebbe tornare in Bulgaria dove si è adattato bene, ma mi ripete ancora i grandi campionati che sogna: Turchia, Russia, Iran. «Per tante persone il fatto di sentire “Armenia”, “Bulgaria”, significa non avere un traguardo, è la fine del calcio, e invece c’è la possibilità che il calcio ti si apra in tante prospettive».
Davide Grassi, ventotto anni, è già stato in Slovenia, in Spagna, in Belgio, in Scozia prima all’Aberdeen poi al Dundee, poi tornato in Italia, a Sorrento, e alla fine è arrivato a Cipro, all’Aris Limassol. Il salto per Davide è stato meno impegnativo del previsto, in Scozia tornerebbe subito, dice «sono stato da Dio, è un calcio nel mio Dna. Stadi sempre pieni, campi bellissimi, giocare contro i Celtic, i Rangers». Cosa conoscevi di Cipro prima di arrivare a Cipro, gli chiedo. «Niente» dice, e ride, «non sapevo neanche dov’era». Invece Davide si è adattato anche a Cipro, e mi parla con la voce convinta: «Prima di arrivare ero spaventato. In realtà è un calcio dove ci sono quattro o cinque squadre che giocano davvero bene, c’è l’Apoel [Nicosia], insomma squadre forti. Anche i tifosi, quando giochi contro l’Omonia, l’Ael, l’Apoel, gli stadi sono sempre pieni, il calcio è vissuto molto intensamente». Lui se n’è andato dall’Italia giovanissimo, al Mérida in Spagna, in Extremadura, un complesso archeologico protetto dall’Unesco, chiamata “la Roma spagnola” per la ricchezza di monumenti, e dell’estero è un habitué: «Il primo grosso salto, a parte la Slovenia che però era a un passo dall’Italia, è stata la Spagna, avevo vent’anni e non conoscevo una parola di spagnolo, lì sì che è stata dura. Proprio quest’anno avevo ancora paura, andavo in un posto di cui non sapevo purtroppo niente, ma adesso ti posso dire che fortuna che sono andato, sono capitano, ci sono i soldi e sono spesi bene, ci sono venticinque gradi, le spiagge».

Anche Davide Grassi partirebbe ancora, e farebbe ancora una valigia e una borsa da calcio, cambierebbe lingua e colori di maglia, e non perché non sta bene a Limassol ma perché ha voglia di viaggiare. Vorrebbe andare in Cina, dice, o in Giappone, in Oriente. Per il calcio e per curiosità. «I posti dove non andrei sono quelli dove il calcio non esiste, non è conosciuto o considerato». In realtà i calciatori come Damiano, Davide, Alessandro o Simone hanno una valigia sempre pronta anche per un altro motivo, ed è il fatto che la grande maggioranza dei contratti sono contratti annuali, in Italia e all’estero. Ancora, di nuovo a Lecco, me lo spiega Alessandro Magni: «A fine stagione tutti si trovano nella posizione di doversi cercare una squadra per l’anno che va a iniziare. E all’estero non fa eccezione, tanto più se ti affacci per la prima volta. Se tu vai per la prima volta a giocare in Bulgaria, per iniziare ti fanno un contratto di un anno, perché la società si assume un rischio, e dal suo punto di vista dev’essere un rischio calcolato: se le cose non vanno bene non posso essere costretto a tenermi un investimento sbagliato per tre anni. Poi Alessandro mi parla anche di un altro “assistito”, si chiama Michele Di Piedi e ha giocato a Firenze, a Perugia, a Sheffield, Bristol, Doncaster, Nuoro, Lamezia, Milazzo, e da gennaio 2014 è al Nay Pyi Taw, in Birmania. È un’operazione che Alessandro ha concluso senza nemmeno dover andare in Birmania: Di Piedi in realtà era in Malesia per un’amichevole-provino, ma tra gli osservatori c’era il presidente della squadra birmana, che gli ha proposto un tesseramento immediato. Il contratto è arrivato via email dalla Birmania a Lecco, poi di nuovo a Nay Pyi Taw, la nuova capitale, e Michele Di Piedi ha firmato, ha esordito, ha segnato (mentre scrivo è il capocannoniere del campionato), rilasciato un’intervista a Tuttosport in cui si dice entusiasta e si sente «di nuovo un ragazzino». Alessandro Magni ostenta sicurezza e umiltà e conclude con una frase a effetto che fa parte del personaggio, alzando un po’ le spalle: «Io parto dal presupposto che spazio ce n’è per tutti. Il mondo è grande, e a calcio si gioca ovunque».