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 2014  maggio 23 Venerdì calendario

BERGAMELLI, IL RE DEI MARSIGLIESI TRA SEQUESTRI E DONNE DA SOGNO

Il Marsigliese doc. Nato il 6 settembre 1939, a Vitry-sur-Seine, in Francia, da genitori italiani, Albert Bergamelli, soprannominato «Bocca piena», non era ancora maggiorenne quando, per la prima volta, era stato arrestato per furto e rinchiuso nella casa di correzione di Salum. Scarcerato dopo un anno, era stato arrestato nuovamente, sempre per furto, e rinchiuso nel carcere di Lione, dov’era rimasto pochi giorni, avendo provato subito la sua specialità: l’evasione. Tornato nuovamente al fresco nel 1963, era riuscito a evadere un’altra volta, a lasciare la Francia e a compiere una rapina da manuale a Milano, in via Montenapoleone, il 15 aprile 1964: quattro auto bloccarono il traffico, ne scensero quattro individui incappucciati, i quali si diressero verso una gioielleria; un quinto aprì il fuoco, col mitra; spaccarono le vetrine della gioielleria Colombo e si portarono via quanto poterono, cominciando da un brillante di 80 milioni di vecchie lire. Arrestato, però, con tutta la banda, i cosiddetti «sette uomini d’oro», guidata da Giuseppe «Jo le Maire» Rossi, detto, per l’appunto, «il Sindaco di Marsiglia», nel 1966, Albert Bergamelli era finito al soggiorno obbligato nel modenese.

Immancabile una nuova fuga: questa volta si era stabilito a Salerno, dove aveva conosciuto quella che sarebbe stata la donna della sua vita, Felicia Cuozzo, che, nel 1976, sarebbe stata catturata dalla Mobile di Roma, qualche ora prima di lui. Nel 1970, era rientrato in Francia, dove aveva aggregato la famosa «banda del Mec», con la quale aveva messo a segno una serie di rapine, fra le quali quella clamorosa alla Banca Federale Belga di Bruxelles. Due anni dopo, era ricomparso a Torino, dove, arrestato per rapina, era evaso di nuovo, per approdare finalmente a Roma e qui rientrare nel giro della grande criminalità organizzata.

Agli inizi degli anni Settanta, la mala capitolina si articolava ancora in una molteplicità di piccoli sodalizi territoriali, sicché era anarchica, incostante e segnata da endemica conflittualità; sul litorale laziale, le cui coste erano l’ideale approdo per le «paranzelle» cariche di sigarette, Frank «Tre dita» Coppola si accontentava di governare il suo piccolo regno, senza pretese di egemonia o ingerenza negli affari altrui; i business sostanzialmente erano quelli dell’usura e della cosiddetta criminalità terziaria, con la categoria separata dei «cassettari», i ladri delle fogne, costituenti da sempre una vera e propria élite inaccessibile; il «saccagno», più che la semiautomatica, era ancora l’arbitro assoluto d’ogni controversia.

Fu su questo scenario che si abbatté il ciclone della «banda dei marsigliesi» o «gang delle tre B», dal nome dei capi: Albert Bergamelli, per l’appunto, Jacques «Jacki» Berenguer e Maffeo «Lino» Bellicini. Gente dura, che non andava per il sottile, ben decisa a impiantare su un terreno vergine e fecondo il colossale giro della cocaina. La mala romana percepì in ritardo che l’invasione marsigliese era irrefrenabile; la guerra scoppiò, dunque, rapida e violentissima; stavolta, però, al posto dei coltelli a serramanico, a parlare furono mitra, revolver e fucili a canne mozze: uno dopo l’altro, oltre ad una serie di anonimi gregari, caddero anche Sergio Maccarelli, Carlo Faiella, Ettore Tabarrani e Umberto Cappellari, vecchi boss refrattari al traffico degli stupefacenti.

I Marsigliesi, nonostante questo, aggregarono attorno a loro i delinquenti più decisi e promettenti della capitale, fra cui Laudavino «Lallo lo Zoppo» De Sanctis, il quale, in seguito, avrebbe messo insieme la «banda delle belve», dedita ai sequestri di persona, tristemente nota, fra l’altro, per quello del «re del caffè» Giovanni Palombini, ucciso quasi subito, senza interrompere, però, le trattative con i familiari, per convincere i quali a cedere venne fotografato il cadavere, conservato in un congelatore, dopo averlo «truccato»; ma anche Danilo «er Baffo» Abbruciati, un ex pugile con vocazione alla rapina, non ancora coinvolto, a quel tempo, nel progetto criminale della Banda della Magliana.

La «gang delle tre B», il 21 febbraio 1975, aveva legato il suo nome alla sconvolgente rapina all’ufficio postale di piazza dei Caprettari, a Roma, che fruttò un magro bottino, ma in cui fu assassinato un agente accorso sul posto, Giuseppe Marchisella; ad essa erano seguiti, peraltro, veri e propri effetti collaterali, il suicidio di Clara Calabresi, fidanzata del poliziotto ucciso, e l’omicidio di Claudio «Topolino» Tigani, un ladruncolo che «sapeva troppo». Fu, tuttavia, con i sequestri di persona che la «gang delle tre B» fece il suo definitivo salto di qualità. La sera del 13 marzo 1975, nel traffico di auto in corso Italia, a Roma, tre uomini armati smontarono da una Giulia Alfa Romeo, invitarono l’autista della Fiat 132 che li precedeva a scendere e, dopo avere preso posto in macchina, invertirono il senso di marcia per sparire assieme all’altro passeggero: Gianni Bulgari, erede di una delle più famose gioiellerie del mondo, che dopo un mese di prigionia, il 14 aprile, venne rilasciato dietro il pagamento di un riscatto miliardario. L’ingegner Amedeo Ortolani, figlio del finanziere Umberto e presidente della Voxon, fu sequestrato, il 10 giugno del 1975, dagli uomini di un commando travestiti da agenti delle forze dell’ordine; dopo 11 giorni di prigionia, venne rilasciato, previo pagamento di un riscatto di 800 milioni di lire. Nell’ottobre del 1975, era stata la volta di Alfredo Danesi, industriale del caffè, sequestrato sotto la sua casa romana di Monte Mario: la prigionia atroce di venti giorni in un bugigattolo due metri per due, incatenato e imbavagliato, durò fino a che le forze dell’ordine non erano riuscite a trarlo in salvo.

La bella vita dei Marsigliesi, fatta di donne, champagne, cocaina, macchine di lusso e appartamenti nei quartieri alti, venne interrotta, però, da una serie di arresti, che decimarono la gang.

Ad Albert Bergamelli toccò il 29 marzo del 1976, quando, assieme a Lucas Bezian, venne arrestato, in un residence sulla via Aurelia a Roma: lo avevano rintracciato seguendo i movimenti di una donna, Maria Rossi, che proprio per la sua banda curava la logistica dei rifugi. Due giorni dopo sarebbe stata la volta del suo avvocato, Gianantonio Minghelli, con l’accusa di aver riciclato denaro provenienti dalle casse della gang. Nell’agosto del 1976, verrà catturato anche Maffeo Bellicini, che riuscirà ad evadere dal carcere di Lecce assieme al bandito sardo Graziano Mesina e ai due brigatisti Martino Zicchitella e Pietro Sofia, appartenenti ai Nuclei Armati Proletari, per essere riacciuffato solo due mesi dopo, in un ristorante di Roma. Jacques Berenguer, riuscito, invece, a fuggire a New York, vi verrà arrestato, nel 1980, ed estradato in Italia. Nel processo per i cinque sequestri di persona, compiuti dalla banda a Roma nel biennio 1975-1976 la Corte d’assise di Roma, il 28 settembre del 1979, mentre condannò, fra gli altri, Bergamelli, Berenguer e Bellicini, pronunciò invece sentenza di assoluzione per l’avvocato Minghelli, come pure per il boss milanese Francis Turatello e per Danilo Abbruciati. Ma la storia di Bergamelli ha rivoli oscuri, mai esplorati, che portano alla P2 e ai servizi deviati...

(1-continua)