Denise Pardo, L’Espresso 23/5/2014, 23 maggio 2014
BASTA, LASCIO QUESTA ITALIA MALATA
[Colloquio Con Franco Tatò] –
L’addio alla Treccani, un addio non dei più armoniosi è finito perfino sulle pagine della “Frankfurter Allgemeine Zeitung” detta Faz, uno dei più importanti quotidiani tedeschi. Tutto quello che riguarda Kaiser Franz, al secolo Franco Tatò, tagliatore di costi dal Meno al Po fino al Tevere, boia di sprechi aziendali, fa notizia nella Germania dove ha lavorato per molto tempo. Nell’articolo di “Faz” dove è definito “innovatore e leader economico”, Tatò, 82 anni, dichiara di voler lasciare l’Italia e che la sua nuova patria potrebbe essere la Germania. Il fatto è che dopo undici anni di risanamento all’Enciclopedia, la “fonte del sapere” lo ha esautorato in modo rocambolesco. Tatò che considera il suo allontanamento «metafora del metodo con cui si sceglie la classe dirigente» racconta a “l’Espresso” com’è andata. E da gran testimone del tempo ricorda la sua lunga carriera, gli scontri con Marcello Dell’Utri, «la diligenza», nulla di più, di Marina Berlusconi, il sostegno di Giuliano Amato a Massimo Bray, commentando le nomine di Renzi e la favola dell’austerità.
Franco Tatò, perché dice che la sua uscita dalla Treccani sia la perfetta metafora del modo in cui è scelta buona parte della classe dirigente italiana?
«Il nostro modello di gestione mi sembra unico nel mondo civile, certamente non è esportabile. Le aziende non paiono avere come fine principale fare profitto o raggiungere scopi sociali. L’obiettivo primario sembra essere un altro: accontentare qualcuno. Questa è la vera concezione di fondo».
Ci racconti: in Treccani non è finita benissimo.
«Credo di aver amministrato bene la società per undici anni contenendo i costi, eseguendo piani editoriali approvati, dopo accuratissimi resoconti, all’unanimità dal cda. Sento di aver svolto un compito importante con la digitalizzazione dell’enciclopedia. Ora tutti possono accedere ai contenuti anche chi non si sarebbe potuto permettere l’acquisto di una Treccani. Lavoro da 58 anni e francamente mi sarei aspettato un’uscita con una soluzione meno umoristica».
Il suo mandato era arrivato a scadenza.
«Infatti non rivendico nessun diritto, sia chiaro. Ma quando sono arrivato nel 2003 la situazione era molto seria e l’indebitamento toccava i 97 milioni. Ora lascio un bilancio ragionevole, 52 milioni di ricavi, un milione di utile e i primi 4 mesi del 2014, momento nero per l’editoria, mostrano un più 9 per cento. Con questi numeri pensavo di poter sperare in una telefonata, in una stretta di mano. Alla mia età non posso certo aspirare a fare l’amministratore delegato di Fiat. So bene come vanno queste cose».
Per la nuova poltrona di direttore generale sarebbe in corsa Massimo Bray, ex ministro per i Beni Culturali del governo Letta. È così?
«L’operazione di cambio sbandierata al grido di “ridiamo peso alla ricerca scientifica” che Treccani non ha mai fatto, da brava enciclopedia registra solo l’esistente, serviva a giustificare il rientro dell’ex direttore editoriale, Massimo Bray. Per questo è stato cambiato lo statuto, cancellata la figura dell’amministratore delegato, nominati oltre al presidente Franco Gallo due vice presidenti, Gianni Puglisi, rettore di Iulm e presidente della Fondazione Banco di Sicilia, e Mario Romano Negri, anche lui esperto di fondazioni bancarie. Nessuno di questi ha esperienza di editoria. Sarebbe come se decidessi di fare il tributarista in concorrenza con Gallo».
Bray è parlamentare.
«Ha fatto sapere che amerebbe tornare alla Treccani e che si annoia a fare il peone. È comprensibile lo choc dopo essere stati ministri. Meglio rientrare in Treccani e recarsi in Parlamento quando c’è da votare prendendo ordini da chi glieli dà…».
Bray è politicamente vicino a Massimo D’Alema…
«D’Alema è il suo mentore. Ma vedo il segno di una mente più sottile. Bray è molto sostenuto anche da Giuliano Amato. C’è bisogno di una testa più diabolica di quella di D’Alema per inventare uno statuto di questo genere…».
Ne avrà viste a bizzeffe di situazioni simili. È stato all’Olivetti, alla Mondadori, alla Fininvest, all’Enel...
«Le aziende dove ho lavorato non erano così. Non lo era Mondadori, neanche Fininvest, e nemmeno l’Enel del 1996, inizio di una stagione felice dopo l’allontanamento del vecchio cda collettore di mazzette. È stato un momento di grande entusiasmo e fervore in cui ci si lavorava avendo come unico scopo la mission dell’azienda».
Rispetto a quegli anni la situazione italiana sembra molto peggiorata, scandali su scandali…
«La pesantissima crisi economica suscita grande apprensione. Ma io sono più preoccupato dai comportamenti della classe dirigente. In situazioni di crisi bisogna lavorare in maniera più che concentrata. Eppure invece di impegnarci puntando sulle competenze, cercando persone capaci e serie si continua a credere che le aziende possano andare avanti da sole e che la bravura dei manager conti meno del potere di lobby, parentele, nepotismi, cricche. È un criterio profondamente sbagliato che il Paese non può permettersi più».
La “Faz” scrive che sta pensando di lasciare l’Italia e di tornare a vivere in Germania dove ha lavorato per quasi vent’anni.
«Le rispondo sinceramente: se ricaverò abbastanza dalla vendita di quello che ho, penso di farlo. Non ho idea di quale sarà la meta: l’unico dubbio che ho sulla Germania è rappresentato dal fatto che mia moglie Sonia non conosca bene il tedesco. C’è pure la possibilità di scegliere la Francia, vedremo. È sicuro che non andrò in Libano, anche se ultimamente va molto di moda».
A Beirut si è rifugiato Marcello Dell’Utri. Vi conoscete bene: con lui in Mondadori si consumò una battaglia.
«Sì e infatti lasciai Segrate a causa sua. Ci fu uno scontro molto acceso sui veicoli con i quali pubblicizzare i libri. Lui pretendeva che comprassi spot in prima serata ma i nostri bilanci non lo permettevano. Quindi dicevo no. Ricordo che diede un’intervista a “Repubblica” sostenendo che la mia era una Mondadori senz’anima. Forse era priva della “sua” anima. E viste le “sue” successive vicende, non era stato proprio un guaio. Quando me ne andai, volontariamente dopo che Romano Prodi m’aveva chiamato per offrirmi la responsabilità dell’Enel, Dell’Utri gongolava. Mi sostituì con un certo Paolo Forlin, peraltro una bravissima persona, strappandolo a un’importante azienda di carta igienica».
Carta igienica?
«Proprio così. Marcello pensava che fosse un buon presupposto per gestire una casa editrice. In fondo anche Mondadori aveva un prodotto prevalentemente cartaceo. Forlin era un grande investitore pubblicitario di Publitalia e quindi Dell’Utri aveva pensato “chissà che faville farà Forlin”. Le faville fallirono miseramente. Passò un anno e Forlin guadagnò l’uscita a causa di una gestione non proprio formidabile. Seppi dopo che espatriò mi sembra in Grecia. Rimase nel ramo ricominciando a occuparsi di carta igienica».
Quando Berlusconi diventò premier, vi siete ritrovati faccia a faccia. Il rinnovo del terzo mandato all’Enel dipendeva da lui.
«Non mi confermò e io m’infuriai. Berlusconi è un bugiardo strutturale e mi farfugliò varie stupidaggini dando la colpa a Giulio Tremonti. Berlusconi chiacchiera ma dimentica che alla fine è solo lui a decidere. Non i suoi manager, non i suoi ministri».
Al tempo della Mondadori, Marina, su ordine del padre, la seguiva come un’ombra armata di taccuino per imparare i segreti della buona gestione aziendale. Se n’è impadronita?
«È una donna diligente. Fa i compiti a casa. Ascolta papà».
Si parla di una sua possibile candidatura. Lei l’ha conosciuta bene. Possiede le doti e le capacità del padre?
«Visti i risultati ottenuti di Berlusconi, mi sembra sia meglio che non le abbia. Anzi, speriamo che ne sviluppi altre».
Sull’argomento, mi sembra reticente. Come giudica, invece, le nomine del governo ai vertici degli enti pubblici?
«Sono le più politiche mai state fatte. Nel senso che Renzi voleva lanciare un messaggio molto chiaro. Era: “voglio più giovani, voglio più donne”. Giustifico il premier, far passare questa linea era prioritario. Spero che le cose si raddrizzino nel tempo e si torni alla normalità. Nominare una donna non è un obiettivo economico. Lo è invece scegliere gente brava e quindi, ora che il territorio è stato marcato, mettiamo a posto le aziende per favore. Comunque queste nomine hanno tracciato un solco. Credo che niente sarà più come prima».
Renzi è il filosofo della rottamazione. Sbaglia?
«Io desidero continuare a lavorare perché voglio mantenermi attivo. Capisco che la società ha bisogno di ricambio. Ma un mondo evoluto pensiona la gente. Non la rottama. Trova modo di utilizzare chi ha lavorato bene. S’ingegna per valorizzare i patrimoni di esperienza. Non si tratta solo di una questione di rispetto ma anche di vera utilità sociale. Il concetto “sei vecchio ti caccio” non aiuta nessuno».
Tira un vento impetuoso antieuropeista, soprattutto nei confronti della Germania, sua seconda patria, colpevole di volerci austeri e poveri.
«La storia dell’austerità è una favola. Si è creata artificialmente una dicotomia crescita-austerità. Cos’è l’austerità se non rigore, tenere i conti in ordine, applicare la buona amministrazione, tagliare i costi, non fare spese inutili? Forse sperperando si cresce? Non credo. Allora perché crescere se non c’è profitto?».
C’è un via vai di tecnici della spending review, Prima Piero Giarda, poi Enrico Bondi ora Carlo Cottarelli. Lei è stato un tagliatore-precursore nei fastosi anni Novanta. Fu famosa una frase di Berlusconi “Quando incontro Tatò ho sempre paura che mi guardi come un costo da abbattere”».
«Quello del commissario-tagliatore è un mestiere difficile ostacolato da tutti in tutti i modi. Per farlo bene ci vogliono persone di buon senso sorrette dal potere politico. Ritengo che Cottarelli stia lavorando meglio degli altri. Se il premier lo sostiene e i ministri gli danno ascolto è avviato su una buona strada. Ho letto l’elenco degli interventi che suggerisce e mi sembrano abbastanza ragionevoli».
Ha mai incontrato Renzi?
«Non lo conosco. Mi sembra un uomo molto intelligente, attivo, lucido e ambizioso. Posso solo fargli gli auguri di avere la mano felice. E di non usare il modello Treccani per gestire l’Italia».