Marco Damilano, L’Espresso 23/5/2014, 23 maggio 2014
BATTIAMO LA MERKEL
[Colloquio Con Romano Prodi] –
Vista da qui anche l’Europa appare piccola, figuriamoci l’Italia...», sospira Romano Prodi da Shanghai dove ha trascorso l’ultima settimana di campagna elettorale. Distaccato, lontano dalle beghe italiane, almeno in apparenza («Sono un uomo del passato»), l’ex presidente della Commissione europea, ex premier e chissà quanto ex candidato al Quirinale si appassiona a parlare di Europa: «Mancano politici visionari, c’è un accorciamento dell’orizzonte politico».
Romano Prodi, doveva essere la prima campagna elettorale europea, con in gara i candidati alla guida della Commissione, a partire dal socialista Martin Schulz. È stato cosi?
«Direi di sì, anche se parzialmente. Per la prima volta, sia pure in modo semplificato, strumentale, i temi europei hanno prevalso su quelli nazionali. In tutta Europa e anche in Italia i partiti si sono divisi sull’euro, l’immigrazione, le politiche di crescita. Il più delle volte per attaccare le istituzioni europee, certamente, ma per la prima volta si è abbandonato un orizzonte puramente nazionale. È un passo in avanti. La piena coscienza del voto europeo ci sarà quando, e soprattutto se, nella scelta del nuovo presidente della Commissione europea, si terrà conto dei risultati elettorali. Non è affatto scontato, nei trattati si fa riferimento soltanto a un esito coerente con il risultato delle elezioni. In questo caso, sicuramente, c’è stata una politicizzazione maggiore».
Sull’ultima copertina dell’“Economist” si vedono François Hollande crocifisso, David Cameron al rogo, Angela Merkel è a testa in giù, l’unico italiano è Beppe Grillo avvolto nella bandiera europea. È una foto esatta?
«Quella copertina è satirica, ma fa emergere un messaggio chiaro: tutti i singoli governi nazionali sono nei pasticci. Il modo sbagliato con cui è stata gestita la crisi dell’euro e dei debiti sovrani negli anni passati ha esacerbato le contraddizioni dell’Europa. I governi sono stati danneggiati dalla cattiva gestione della crisi, non è colpa dell’Europa, ma dell’assenza di Europa. Tutto è stato deciso in base agli interessi dei singoli Paesi, il che nella situazione attuale significa che tutto è stato deciso dalla Germania. I Paesi più periferici sono stati danneggiati da una politica volutamente recessiva che ha favorito i tedeschi, con un gigantesco surplus commerciale. Questo ha danneggiato il resto dei Paesi europei. Era una politica necessaria? Se avessero gestito così la crisi Barack Obama o i cinesi oggi in crisi ci sarebbero loro».
Renzi ripete che bisogna «cambiare verso» all’Europa. È possibile? In che direzione?
«È possibile farlo, ma cambiare i parametri deficit/Pil non serve a nessuno. Dico no alle eccezioni sui patti sottoscritti, anche se non dimentico che i primi a violarli furono francesi e tedeschi. Pazienza, guardiamo al futuro. Non dobbiamo inventarci cose strane. Servono grandi progetti di sostanza: grandi reti energetiche comuni a tutti i Paesi europei, la lezione che ci arriva dall’Ucraina credo possa bastare, grandi reti di telecomunicazioni, le infrastrutture digitali, progetti di ricerca unitari, tutte cose che si possono fare da subito».
Lei ha scritto che la crescita dei populisti renderà inevitabile una grande coalizione in Europa tra socialisti, popolari e liberali. Il modello italiano, le larghe intese, ha fatto scuola nel Continente?
«Quando parlo di grande coalizione più che all’Italia penso alla Germania, dove democristiani e socialdemocratici governano insieme...».
In Germania, però, non c’è un grande partito anti-sistema come il Movimento 5 Stelle...
«Per forza, in Germania l’area del populismo e del nazionalismo è ricoperta dalla Merkel che riesce a interpretarli entrambi. La difesa degli interessi nazionali tedeschi ha stroncato sul nascere qualsiasi possibile movimento interno anti-europeista, ma ha acceso i populismi in tutti gli altri Paesi. A Bruxelles negli ultimi anni ha comandato solo un Paese, la Germania si è permessa perfino di dare lezioni di morale, inaccettabili. Io da presidente della Commissione europea ho sempre trattato ogni Paese con rispetto, non ho mai dato lezioni a nessuno».
I no euro, da Marine Le Pen agli indipendentisti inglesi, sono in crescita in tutta Europa. In Italia c’è il M5S. Sono la stessa cosa?
«Ogni situazione nazionale ha una sua specificità. L’elemento che è presente in tutti è l’uso della paura. Tutti i movimenti populisti, intelligentemente dal loro punto di vista, sfruttano la paura dell’opinione pubblica e fanno un’equazione tra l’euro e la crisi. Sbagliata, perché la frammentazione portata da un’eventuale uscita di un Paese dall’euro avrebbe conseguenze incalcolabili».
Dal luglio l’Italia (Renzi) assumerà la presidenza europea. Che margini di manovra ha?
«Italia, Francia e Spagna devono unirsi per una politica di ripresa e di sviluppo. Preparare un piano di rilancio, discuterlo e proporlo insieme, così da arrivare al Consiglio europeo di ottobre come la sede in cui si prendono le decisioni, non come a un convegno di studio».
Da premier conquistò l’Expo 2015 per Milano. Come ha vissuto gli ultimi arresti?
«Come si dice nel linguaggio popolare, mi sono davvero cadute le braccia. C’erano già stati numerosi ritardi e problemi, ma mi ha fatto male anche sul piano personale vedere il ritorno in scena di personaggi di venti anni fa. La corruzione è difficilissima da inseguire, va prevenuta e debellata prima che si sviluppi. Dopo è troppo tardi. Mi auguro che le nuove misure ipotizzate siano efficaci, ma il danno per l’Italia c’è già. Gli investitori stranieri che incontro all’estero mi chiedono se c’è un’amministrazione della giustizia efficiente, regole che permettano la competizione. Visto dal di fuori tutto questo appare spesso inesistente, lo stacco è sempre più forte».
Si pensava che in Italia la crisi fosse terminata, da due anni i governi avvistano la cosiddetta «luce in fondo al tunnel», invece le stime danno ancora il segno meno.
«Sinceramente non sono sorpreso. Ogni volta che negli ultimi mesi ho parlato di ripresa ho sempre premesso che avevo la speranza di vederla presto, ma che non l’avevo ancora incontrata nella mia osservazione empirica. Qualsiasi ottimismo deve confrontarsi con la realtà di un Paese che fatica a ritrovare la fiducia».
L’ex ministro dell’Economia americano Timothy Geithner ha scritto che nel 2011 dall’Europa arrivò la richiesta ad Obama di buttare giù Berlusconi. È verosimile?
«Sui complotti se ne scrivono tante. Si è evocata questa categoria anche a proposito della caduta del mio governo. Posso dire quel che penso davvero? Di questa storia non mi interessa nulla!»
La grande coalizione, europea e italiana, da emergenza diventerà formula di governo?
«Sul piano nazionale, ogni Paese adotta uno schema politico in grado di dare un governo conseguente alla situazione che ha. A livello europeo la grande coalizione diventerà inevitabile, per quello che oggi ci dicono i sondaggi. I partiti europeisti saranno obbligati a unirsi e a fare una politica attiva se non vogliono finire in minoranza, essere spazzati via».
Ma è uno schema che lei auspica? Dopo vent’anni si è chiusa in Italia la stagione del bipolarismo tra berlusconiani e centro-sinistra e bisogna aprirne una nuova?
«Venti anni fa, di questi tempi, meditai il mio ingresso in politica e annunciai la mia disponibilità a un impegno che si concretizzò un anno dopo con l’Ulivo, in un quadro di bipolarismo. Sono rimasto fedele allo schema di allora. Se si fosse adottato all’epoca, quando avevamo riportato gli indicatori economici in positivo, se non ci fossero stati ritorni all’indietro l’Italia di oggi sarebbe diversa. Mi sono sempre pronunciato per un sistema elettorale che favorisca il bipolarismo, il modello inglese del collegio uninominale o il doppio turno uninominale alla francese, su questo non ho mai cambiato idea. Serve una legge elettorale che consenta al vincitore di governare. È quella la forma di governo di un Paese democratico per cui è possibile prendere le decisioni. Altrimenti, se non c’è questa possibilità, la grande coalizione diventa inevitabile».
Lei riceverà il premio De Gasperi, già ritirato da Helmut Kohl e Carlo Azeglio Ciampi. Cosa resta della classe dirigente europea?
«Molto poco. Oggi non vedo leader visionari, solo politici nazionali. Le democrazie europee soffrono di mancanza di visione, di un accorciamento dell’orizzonte politico che non ti fa guardare oltre le prossime elezioni, i sondaggi, lo spazio del risultato istantaneo e immediato...»
Lei usa twitter? Anzi, “è” su twitter?
«Non ci sono e non ci sarò. È uno dei motivi per cui penso di essere assolutamente passato, sia chiaro. Sono uno che in politica ama pensare, a lungo e con lentezza. Twitter è uno strumento di divertimento, la politica è un’altra cosa. Non si può fare politica con un tweet».
E dunque consiglierebbe a Renzi meno tweet e tempi più lunghi?
«Non do nessun consiglio a Renzi. È troppo difficile il mestiere che fa perché ci siano consigli che arrivano dagli altri. Io lo so bene».