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 2014  maggio 23 Venerdì calendario

MIO FIGLIO NON È UN TERRORISTA


Passiamo di là, che l’erba è alta... qui è tutto lasciato andare. L’anno scorso c’erano i fiori, sa? Poi hanno arrestato Mattia, gli hanno dato del terrorista e non c’è stato più il tempo nemmeno di falciare il prato». Non se lo dimenticherà mai quel 9 dicembre, Cristina Cicorella, 51 anni, la madre di Mattia Zanotti, uno dei quattro No Tav arrestati come pericolosi eversori e detenuti da ormai cinque mesi. Quelli che i pm considerano una vera e propria organizzazione anti Stato, mentre la Cassazione chiede di riformulare le accuse. Mamma Cristina ci pensa ogni giorno a quella telefonata nel cuore della notte. Lei che resta immobile con la cornetta in mano, incredula, e la voce che le dice che stanno ammanettando Mattia: «Si sono presentati a casa sua a Milano incapucciati, alle 5 del mattino, in sei o sette. Hanno minacciato di sfondare la porta, se non aprivano. Sono entrati e hanno installato un dispositivo elettronico nella stanza, credo servisse per evitare la possibilità di comunicare con l’esterno. Preso così, come si fa con Bin Laden», racconta a “l’Espresso”.
Un arresto in grande stile, in effetti, quello dei quattro No Tav: Mattia Zanotti, 29 anni, Chiara Zenobi, 41 anni, Claudio Alberto, 23, e Niccolò Blasi, 24. Come nei film. Come per i mafiosi, per i brigatisti, per gli stragisti: «Hanno letteralmente tolto tutto dalle librerie e dagli armadi, anche i volumi di fantascienza di cui Mattia è appassionato. Poi è stato portato in una piccola casa che abbiamo in montagna. Cercavano armi. Ci è stato detto che sapevano di un mortaio sul tavolo della cucina...». E invece nulla, nessun mortaio, nessuna arma, niente.
Si interrompe all’improvviso Cristina. Tira il fiato. Si guarda intorno. Sì, l’erba è alta a cascina Mariannina, una ventina di chilometri da Milano al confine col cremonese. Alta e incolta, che fai fatica a vedere il gatto quando fugge verso il piccolo ruscello che costeggia la costruzione di mattoni rossi. È un po’ come se quella casa non fosse più una vera casa da quando Mattia è in prigione. E la vita di Cristina è cambiata. È diventata una battaglia contro quello che definisce «un abuso della magistratura». Tutto è esagerato, ingigantito nella storia del suo Mattia. Fin dall’inizio: «Per dieci giorni non ci fu possibile vederlo e, quando finalmente andammo al carcere delle Vallette, io e suo padre Paolo, le prime parole non riguardavano i treni. Ci ha detto: “Mi dispiace tantissimo che vi abbiano portato in questo posto, questa accusa è una cosa lontanissima da me. Sono scosso, sento di avere i poteri forti contro di me”».
In questi mesi Mattia, Claudio, Niccolò e Chiara sono stati sottoposti alla cosiddetta “alta sorveglianza”. Meno ore d’aria. Meno colloqui. Niente contatti con gli altri detenuti. Niente nemmeno con fidanzati o convinventi. E, pure peggio, quel plexiglas alle finestre, che cancella l’orizzonte, quella luce indeterminata, artefatta, un po’ come la montagna di accuse che fanno un’equazione fra anarchia, centri sociali, pistole, bombe e anni di piombo: «È un regime detentivo durissimo, un 41 bis cui hanno cambiato il nome», denuncia Cristina. «È quello per cui l’Europa parlò di tortura. Mattia è stato costretto alla sorveglianza continua, quello che ha patito di più. Qualcuno che si affaccia costantemente alla cella e osserva. Occhi che ti scavano dentro». Non ha visto per quattro mesi la compagna e c’è stato un periodo in cui sono stati sospesi tutti i colloqui: «Io sono stata un mese intero senza vedere mio figlio».
Quando l’ha incontrato di nuovo, poi, «era stremato», ricorda. «Mattia è un giovane uomo, è forte, ma credo che avessero l’obiettivo di spezzare le sue convinzioni. Non ci sono riusciti. Questo è il senso dell’isolamento: non ha potuto accedere a nessuna delle strutture, già fatiscenti, del carcere. Né avere contatti con altri detenuti, perché porta il marchio del terrorismo, è pericoloso, deve stare solo, isolato. Sono state vessazioni pesanti, abusi giudiziari. Trenta avvocati a Torino hanno firmato un documento denunciando la gravità della situazione», si sfoga Cristina. Ed ecco che, pochi giorni fa, anche la Cassazione rimette in discussione tutto, proprio alla vigilia del processo. Boccia centinaia di pagine di ordinanza, dove si racconta la storia di un gruppo organizzato, che ha come obiettivo minare la stabilità dell’Italia e dell’Europa. Quell’Unione europea che, per la verità, non ha mai chiesto al nostro Paese di mettere un metro di cemento in Val di Susa. E che adesso sarebbe la vittima designata di quei quattro. Un po’ troppo anche per la Suprema corte, che ha rinviato gli atti al tribunale, chiedendo di riformulare il reato. Quegli scontri nella notte fra il 13 e il 14 maggio 2013 a Chiomonte, sotto il bosco dove la mega-talpa meccanica si mangia ogni giorno dieci metri di roccia per scavare il tunnel, non sono dunque le azioni di terroristi. Quella notte fu messo a segno un sabotaggio, questo sì. Ma nel mirino c’era un compressore, un motore di ferro, non certo un essere umano: «In più, la partecipazione di loro quattro è solo presunta. Non so nemmeno se c’erano a Chiomonte. Quella notte, come altre volte, alcuni militanti No Tav hanno lanciato in direzione del cantiere petardi, si parla anche di molotov, per danneggiare il compressore. Fra l’altro è stato già riparato e rivenduto, quindi il danno non era poi così grave», racconta la madre.
Non è così per la polizia, né per i giornali. Si parla di guerriglia, di commandos, di attacco militare pianificato, di vedette e autisti, di segnali convenzionali, di 48 telefonate e 44 sms per mettere a segno un assalto terroristico. E a pagare il conto sono loro quattro. Loro che per lo Stato sono il simbolo del salto di qualità nelle inchieste contro i No Tav, che hanno già messo in fila mille indagati. E che per il popolo della Valsusa sono invece il totem dell’oppressione del potere. Sigillo di una guerra senza quartiere fra chi non vuole l’Alta velocità e le istituzioni, Stato, polizia, commissario del cantiere fino alla talpa meccanica che ingoia la roccia. Una battaglia cominciata vent’anni fa, quando Mattia era solo un bambino biondo di 9 anni che correva sui prati di margherite. Una battaglia, un popolo che Cristina non conosceva prima di quell’arresto. «Quando abbiamo letto l’ordinanza e questa accusa enorme, macroscopica, incredibile di terrorismo, ci siamo detti: “Non è possibile, non ci convinceranno mai che Mattia è quello che c’è scritto qui”. Questo è stato il sentimento di tutti i genitori», racconta. Genitori che lei non aveva mai visto prima. Come non aveva mai visto Niccolò, Claudio e Chiara. Finché da cascina Mariannina, prende la macchina e sale in Val di Susa: «Abbiamo ricevuto la solidarietà dei No Tav e ci siamo chiesti chi fossero, perché facessero tutto questo per noi. Il papà di Mattia, quando per la prima volta andò in Procura a chiedere i permessi per vedere nostro figlio, incontrò Alberto Perino, uno dei leader del movimento. Lui lo abbracciò e gli disse: “I vostri figli sono anche i nostri figli, non li lasceremo mai!”. Ci colpì molto, non ci aspettavamo una dichiarazione così forte. E poi quelle parole si sono confermate nei fatti. Senza protagonismi».
Quassù anarchia, libertà, democrazia resistente si sono fuse insieme. Dai tempi delle manifestazioni pacifiste degli operai della Moncenisio negli anni Settanta. Qui dove è nato il movimento operaio. Qui dove per la prima volta una fabbrica ha scioperato contro i padroni perché producevano armi: «Quando siamo arrivati in Valsusa, non siamo stati accolti né da ideologie, né da manifesti o volantini. I No Tav stavano cucinando: c’erano tante donne ai fornelli, che preparavano cose buonissime da portare in prigione a Mattia. Così siamo andati da lui e gli abbiamo dato le cose che venivano dalla sua valle, formaggio buono e piatti caldi, cucinati da loro», racconta. Poi ci sono tornati di nuovo. Fin sotto il bosco del famoso agguato al compressore, davanti al grande cantiere in perenne movimento. E ancora alla manifestazione di febbraio, a Milano, e a quella del 10 maggio, a Torino, quando è voluta esserci anche nonna Liliana, costretta in carrozzina, per sfilare con un cartello sul petto: “Sono la nonna di Mattia”. Perché la storia di quella famiglia è, come quella della Valsusa, una storia di pacifisti e solidarietà. Cristina ha cinque figli, due adottati. E nonna Liliana è proprio Liliana Gualandi, premiata a Milano dal sindaco Giuliano Pisapia con l’Ambrogino d’oro. Una delle promotrici della prima legge sull’adozione in Italia, già giudice onorario del Tribunale minorile. Una che certo non si spaventa davanti alla polizia in divisa, che marcia a ritmo militare verso di lei e le sue gambe che non la reggono più. «Ci è subito parso chiaro che il tentativo dei magistrati era di usare quei quattro ragazzi per spaccare il movimento: dividere i buoni dai cattivi», continua Cristina. «Era facile indicare in quelle quattro persone che non sono della valle i colpevoli, in modo da mettere paura e infliggere una condanna esemplare, per dividere, rompere quella solidarietà, fermando la lotta. Ma direi che l’obiettivo è stato mancato. Invece è successo l’opposto: si è chiamata molta solidarietà, a partire dalla nostra. Io sono la mamma di Mattia, ma sono anche una donna e una cittadina di questo Paese, che forse si era impigrita e aveva perso la voglia di battersi per la democrazia. Bene, me l’hanno fatta tornare. E così abbiamo fondato un comitato e l’abbiamo chiamato “Libero dissenso”», racconta.
Intanto a Torino è cominciato il processo ai No Tav. Il 22 maggio, in ritardo. Perché allo Stato più di quei quattro faceva paura la curva dello stadio. Mattia, Niccolò, Claudio e Chiara avrebbero dovuto comparire davanti ai giudici della Corte d’Assise il 14 maggio, ma la finalissima di Europa League ha avuto la meglio sui tanto temuti brigatisti. Troppa polizia da mobilitare, impossibile processare i No Tav se a Torino si gioca a pallone. «È incredibile la militarizzazione della città, inaccettabile. Come mamma di Mattia non mi interessa quanto hanno speso, ma come cittadina sì. O vogliamo parlare della scorta ai giudici popolari? Messa solo per far loro paura, per dire “attenzione, qui c’è il terrorimo” in modo da indurre a un preciso ragionamento. O vogliamo parlare delle regole del processo? Chi entra nell’aula bunker per assistervi, e sarebbe un diritto, viene schedato. E se poi vieni fermato nell’ambito di una manifestazione quella presenza costituisce un elemento di prova circostanziale, come a dire: se tu hai anche partecipato al processo, sei con loro e come loro», continua Cristina. Poi ci sono le regole per gli imputati. «Chi è sottoposto a questo regime di detenzione rischia di assistere al suo processo dal carcere, ripreso in un piccolo monitor. Con la possibilità di essere messo in modalità muta. Che questo sia possibile nel nostro Paese già mi indigna. Che poi sia possibile in questo caso, dove parliamo di persone non giudicate, con un reato che è stato smentito dalla Cassazione, credo sia assurdo». E intanto loro, che avevano affittato un pullman per andare a manifestare per i propri figli, si sono sentiti chiedere un’assicurazione speciale e i soldi in anticipo perché hanno pronunciato la parola No Tav. E ancora la polizia a bordo e i documenti fotocopiati uno per uno. «L’articolo 270 sexies sulle finalità terroristiche fu varato nel 2005, in pieno clima da Al Quaeda, terroristi che hanno fatto migliaia di morti. E viene applicato a quattro ragazzi che hanno come bersaglio un compressore», attacca Cristina. «Ci viene il dubbio che si voglia far passare il fatto che se qualcuno esercita un libero dissenso contro lo Stato può essere accusato di terrorismo».
Perché quel sabotaggio in Val di Susa è un marchio di lotta. Anzi, qui tutta la vallata è ormai un simbolo di resistenza. Tanto che, secondo gli inquirenti, proprio per questo è diventata terreno fertile per iniziative proto-terroristiche. Gente che si mescola alla protesta di Susa, che usa la Tav per fare paura allo Stato. Non sembra il caso dei quattro arrestati, però. Che scoperchia piuttosto un problema opposto: l’accusa di terrorismo, la militarizzazione, la linea dura di autoblindo e bunker ha finito per inasprire lo scontro, anziché arginare i presunti violenti. Proprio quello che, secondo la madre di Mattia, in questi mesi lo Stato ha messo in atto con una «strategia della tensione»: «Basti pensare al documento delirante del “Nucleo operativo armato” sbandierato su giornali e tv, di cui nessuno ha più sentito parlare. Oppure la storia dell’autista del pm Antonio Rinaudo che aveva raccontato di essere stato aggredito dagli anarchici infiltrati fra i No Tav ed è indagato per simulazione di reato», elenca. «Episodi che avevano l’obiettivo di creare un clima di paura».
E alla fine è arrivata pure la Cassazione a rimettere in discussione tutto: «Ho saputo della sentenza a tarda notte, dal papà di Mattia. Ho alzato il telefono e l’ho sentito gridare: “È caduta, è caduta... l’accusa di terrorismo è caduta”. Ora spero che qualcuno cominci a far sentire la propria voce. Così noi potremmo tornare a una vita normale». E a cascina Mariannina si taglierà di nuovo l’erba.