Maurizio Tortorella, Panorama 22/5/2014, 22 maggio 2014
SCENE DI GUERRA DALLA PROCURA DI MILANO
Sorpresa. Lo scontro che sta sconvolgendo la giustizia italiana è iniziato il 15 marzo 2010. Avete letto bene: è da almeno 4 anni che Edmondo Bruti Liberati e Alfredo Robledo incrociano le lame. Il procuratore di Milano e il suo aggiunto, che da due mesi sommergono il Consiglio superiore della magistratura con esposti e controesposti, audizioni e controaudizioni, si sono dichiarati guerra quando ancora entrambi erano i «numeri 2» di Manlio Minale, l’ex procuratore milanese poi passato alla Corte d’appello come procuratore generale.
Lo certifica una dura lettera, scritta il 16 marzo 2010 da Robledo su quanto è appena accaduto tra lui e il pari grado Bruti: un litigio sulle competenze, una frattura insanabile. Bruti in quel momento è a capo del pool per i reati contro la pubblica amministrazione mentre Robledo, da poco approdato a Milano, non ha ancora un pool. E Bruti avrebbe ingiunto al collega di occuparsi solo di truffe e di reati edilizi. Scrive Robledo: «Bruti si dichiarava comunque disponibile ad assegnarmi fascicoli di reato di corruzione su cui avessi manifestato interesse. Gli ho fatto presente che non ero d’accordo e il collega, cambiando tono, mi ha detto: “Ricordati che al plenum (del Csm, ndr) sei stato nominato aggiunto per un solo voto di scarto, e che questo è un voto di Magistratura democratica (la corrente di Bruti, ndr). Avrei potuto dire a uno dei miei colleghi al Csm che Robledo mi rompeva i coglioni e di andare a fare la pipì al momento del voto, così sarebbe stata scelta Nunzia Gatto, che poi avremmo sbattuto alle esecuzioni” (Gatto fu poi nominata procuratore aggiunto a Milano ed effettivamente si occupa del trattamento dei condannati, ndr)». È evidente che Robledo scrive quella nota a futura memoria: vuole che ne resti traccia.
esautorato perché ritenuto inaffidabile; dall’altra il procuratore, contestato perché troppo «politico». Robledo accusa Bruti di avergli sottratto ingiustamente quattro importanti fascicoli. Bruti accusa Robledo di dire il falso e di avere intralciato l’ultimo, l’inchiesta sull’Expo: prima disponendo un rischioso «duplicato di pedinamento» nei confronti dell’indagato Angelo Paris, poi consegnando al Csm in aprile carte ancora coperte da segreto investigativo, con grave pregiudizio per le indagini e per gli imminenti arresti del 7 maggio. Insomma, botte da orbi. E in tutto questo che fa il ministro della Giustizia, Andrea Orlando? Trasecola? Protesta? Spedisce gli ispettori? Macché. Si limita a balbettare: «Non credo che le diverse opinioni su quanto accade alla Procura di Milano abbiano compromesso l’imparzialità dell’ufficio».
Intanto, dalle centinaia di pagine di esposti e audizioni davanti al Csm emerge un contrasto insanabile, che non solo rischia di travolgere regole fondamentali del diritto e della procedura penale, ma avvalora il sospetto di una «guerra per bande» combattuta in un tribunale diviso fra correnti: dove il principio del giudice naturale è cancellato da legami preferenziali; dove s’insinua che i processi «politicamente rilevanti» vengano affidati ai pm ideologicamente più vicini; dove l’obbligatorietà dell’azione penale si rivela un’ipocrita finzione che in realtà copre la più assoluta discrezionalità dei pubblici ministeri. Insomma, alla Procura di Milano il re è nudo. E non è certo un bel vedere.
L’azione penale è obbligatoria?
Dipende. Al Csm Robledo conferma l’inconciliabile visione sull’affidamento delle indagini, fin dal 2010: «Bruti si disse disponibile ad assegnarmi comunque fascicoli sui reati di corruzione su cui avessi manifestato interesse (...). Io rimasi basito (...). Cioè io avrei dovuto chiedere a Bruti: m’interessa quel processo, lo voglio fare. (...). Quasi una dispensa feudale: “Vuoi un processo? Te lo do”. Io non ho mai ragionato così in 36 anni di magistratura». Robledo accusa i colleghi di scarsa collaborazione: «Nessuno ha rapporti con Ilda Boccassini, non è possibile avere rapporti con la Boccassini. Caratterialmente è impossibile discutere con lei, non risponde mai. Per la verità non risponde neanche Francesco Greco».
I ritardi sulla «Sanitopoli» lombarda
Robledo accusa Bruti di avere ritardato l’inchiesta sulla Sanitopoli lombarda, che ha coinvolto l’ex governatore Roberto Formigoni. L’iscrizione al registro degli indagati per corruzione sarebbe stata fatta da Greco con un anno di ritardo, nel giugno 2012. Già nel luglio 2011, però, Robledo sostiene di avere prime notizie di reato e chiede a Bruti e a Greco di coordinare le indagini. «Greco mi rispose che la situazione era complicata... Poi aggiunse: “Perché non cominci a settembre?”. Gli risposi: ma sei matto? Allora intervenne il procuratore Bruti, che si disse molto preoccupato si potesse andare a interferire sulle trattative in corso per il San Raffaele (trattative che in quel momento dovevano evitare il fallimento dell’ospedale, ndr)».
Inutile una lettera del 29 luglio 2011, inviata a Greco e a Bruti, in cui Robledo richiama i colleghi all’obbligatorietà dell’azione penale: «A tale lettera non ha fatto seguito alcuna risposta od osservazione, né da Greco, né da Bruti». In breve: Robledo accusa il procuratore di avergli sottratto il fascicolo e di avere «rallentato» l’inchiesta per motivi di opportunità economica.
Al Csm Bruti sbotta: «Lezioni sull’obbligatorietà dell’azione penale io non ne prendo». E rivendica il diritto gerarchico di assegnazione dei procedimenti. In effetti il tema è ambiguo: nel 2006 una riforma voluta dal guardasigilli Roberto Castelli aveva rinforzato i poteri del procuratore, poi mitigati da due delibere dello stesso Csm. Bruti conferma che i reati sulla Sanitopoli emergono solo nel 2012 e sostiene che Robledo, per accusarlo oggi, abbia chiesto gli atti al giudice senza essere stato autorizzato. E ricorda anche che il suo aggiunto aveva citato per diffamazione Formigoni già nel gennaio 2011, quindi non avrebbe potuto inquisirlo.
Anche Greco reagisce male alle accuse: insinua che Robledo non abbia mostrato altrettanta verve inquirente nell’indagine da lui condotta sull’ex presidente Pd della Provincia, Filippo Penati, per l’anomala cessione nel 2005 dell’Autostrada Serravalle. Greco testimonia: «Gli consegnai dei dischetti, dicendo: “Qui ci sono questioni molto rilevanti”. Dopo un mese Fabio De Pasquale (un sostituto, ndr) mi disse: “Robledo le cose che gli hai dato le considera acqua tiepida”. Così abbiamo deciso di mandare gli atti su Penati a Monza, che ci ha fatto una grande indagine». Peccato che l’inchiesta a Monza sia comunque arrivata con forte ritardo, e che lo scorso febbraio Penati sia stato prosciolto per prescrizione.
La guerra sui fascicoli Sea e Rubygate
Robledo insiste: lamenta che nel 2012 anche l’inchiesta sulla gara per la cessione di azioni Sea da parte del comune amministrato dal centrosinistra (turbativa d’asta) sia stata ingiustamente affidata a Greco, per poi approdare sul suo tavolo 6 mesi dopo, quando ormai la gara era stata fatta e non era più possibile disporre intercettazioni. Ora pare che la procura generale intenda avocare il fascicolo, per «mancanza di serenità in procura».
Robledo non si ferma: a suo dire anche il fascicolo sul Rubygate (concussione e prostituzione minorile) è stato affidato a Boccassini malgrado non fosse titolare di quei reati. Con lui si schiera il procuratore generale Minale: Ilda, conferma al Csm,Minale accusa ricevuta e aggiunge alcune parole a mano. Si legge a fatica: «Linguaggio informale, riferimenti impropri». Come a dire: tutto vero, ma forse è
meglio sopire, attutire, seppellire... Quattro anni dopo, invece, lo scontro è riemerso. È un conflitto senza precedenti, che spezza in due la procura più «dura e pura» d’Italia. Da una parte l’aggiunto, «non aveva titolarità». Sul caso Sea, Bruti riconosce la «deplorevole dimenticanza» di aver lasciato in cassaforte il fascicolo per 3 mesi, fra dicembre 2012 e marzo 2013, ma sul Rubygate conferma: «Prassi pacifica».
Droga, poliziotti e scelte anomale
Dal contrasto emergono anche le preferenze per diversi settori della polizia giudiziaria. Robledo propende per carabinieri e Guardia di finanza, Bruti per la squadra mobile della polizia. L’aggiunto denuncia al Csm una vicenda sconvolgente, pare la sequenza di un film americano: racconta di un’indagine su alcuni poliziotti dell’antidroga che «facevano a metà» con gli spacciatori. Il contrasto qui insorge perché «Bruti aveva deciso che bisognava fare l’indagine con la squadra mobile». Robledo si oppone: «Sono colleghi di stanza...».
Ma il procuratore insiste, così la mobile fa l’indagine. Che cosa accade? «Facciamo mettere una microspia in un’auto usata da quegli agenti» racconta Robledo «ma si rompe e quindi questi signori non entrano
nella macchina». Lo stesso accade con una seconda e con una terza vettura; la quarta non la usano proprio. «Con la quinta macchina si sente lo squillo di un telefonino che non avevamo sotto controllo e improvvisamente questi (gli agenti indagati, ndr) alzano il volume della radio», così non si sente nulla di quanto dicono.
È evidente, c’è chi li informa. E Bruti? «Insiste che i rapporti con la mobile sono fondamentali». Così l’indagine finisce in nulla. Ammaestrato dal flop, Robledo torna alla carica con una seconda indagine: «In quel caso ammetto di non avere informato il procuratore di avere dato il caso ai carabinieri. Abbiamo messo una microspia nel commissariato della Polfer di Lambrate. E abbiamo trovato 144 chili di hashish e altra droga a casa dei poliziotti».
Come andrà a finire lo scontro?
Infine, due domande poste a due giuristi di idee opposte. Perché il duello? «È una conseguenza del principio dell’indipendenza dei pm» sentenzia il giurista Giuseppe Di Federico, già membro del Csm per il centrodestra. «In nessun paese occidentale il pm è indipendente: dipende qui dal governo, lì dal re...». E come finirà lo scontro? «Credo che Robledo verrà trasferito per incompatibilità ambientale; mentre Bruti non verrà confermato. Ma gli sarà riservato un trattamento indolore: forse andrà a dirigere un altro ufficio...».
Bruno Tinti, ex procuratore aggiunto di Torino, grande critico del Csm e oggi collaboratore del Fatto quotidiano, la vede diversamente: «Tutto nasce dalle correnti e dal loro collateralismo col potere politico» dice. «E anche il finale dipende dalle correnti: però io temo si arriverà a un’archiviazione. Dipenderà dalla faccia di bronzo che il Csm deciderà di esibire».
Ma ad archiviare, conclude Tinti, ci vorrà coraggio: «Perché un procuratore che scorda per mesi in cassaforte un’indagine su una turbativa d’asta merita di essere cacciato solo per quello. Tanti colleghi sono stati sanzionati per molto meno».