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 2014  maggio 22 Giovedì calendario

LA MAGIA DI GHIGGIA CHE UCCISE UN SOGNO E LA FESTA DEL MARACANÃ SI TRASFORMÒ IN TRAGEDIA

[Brasile 1950] –

Infarti allo stadio, dieci. Suicidi allo stadio, due. Suicidi nei tre giorni di lutto nazionale che seguirono, trentaquattro. Infarti complessivi, cinquantasei: più uno, e quell’uno cinquant’anni dopo.
La memoria omerica dello sport lo tramanda come “Maracanazo”, ma è meglio scriverlo in portoghese, Maracanaço, perché quella è la lingua del Brasile, e Rio sta in Brasile, e lo stadio Maracanã sta a Rio, e i morti stanno tutti, prima e dopo, dentro la più dolorosa, incredibile, simbolica, memorabile e tragica partita dell’intera storia del calcio. Avvenne il 16 luglio 1950, e non ha mai smesso di avvenire.
Anche i bambini sanno che al Brasile, quel giorno, per vincere la sua prima Coppa Rimet sarebbe bastato un pareggio contro l’Uruguay: in casa, davanti a 199.854 spettatori. Ma non andò così. Anche questo sanno, i bambini, specialmente quelli cresciuti nel Brasile di allora, diventati grandi nella scia di un dolore, di uno sbigottimento e di un’incredulità. In maglia bianca per l’ultima volta (la divisa venne poi cancellata, bruciata come l’estremo panno di un morto, e dal ’54 è verdeoro dopo essere stata azzurra), il Brasile perse dunque 2-1. Vinceva 1-0, gol di Friaça, minuto 47. Pareggio di Schiaffino, minuto 66: proprio da qui si deve cominciare.
Perché da quell’istante, un’intera squadra e un intero paese si paralizzarono. Grandi giocatori svuotati dal terrore dell’impossibile, e milioni di spettatori più di loro. In ogni landa, in ogni remota terra, davanti a ogni radio di quello smisurato paese. Tutti i giornali avevano già titolato “Il Brasile sarà campione”. Lo stadio tappezzato di manifesti (“Omaggio ai campioni del mondo”), coniate ventidue medaglie d’oro, scritti i discorsi in portoghese, pronta la banda per l’inno nazionale: di quello uruguagio, i musicisti non possedevano neppure gli spartiti. Perché mai prepararli?
Era il 1950, prima Coppa Rimet dopo la guerra, assenti Germania e Giappone, finalmente presenti gli inglesi, presente anche l’Italia sconfitta, ma redenta dalla resistenza e dalla liberazione americana. Assente l’India: ai calciatori non venne dato il permesso di giocare scalzi. Gli azzurri raggiunsero il Brasile in piroscafo, troppa paura di volare pochi mesi dopo la sciagura del Grande Torino. Nella traversata a bordo del “Sises”, tutti i palloni si persero nell’oceano. Persa anche la prima partita contro la Svezia, impossibile difendere le due Coppe Rimet vinte nel ‘34 e ‘38. All’epilogo si arrivò, per la prima e unica volta nella storia, con un girone all’italiana: ecco perché al Brasile (4 punti) sarebbe bastato un pareggio contro l’Uruguay (3). Ecco perché nessuno, tra i sani di mente, avrebbe immaginato il Maracanazo, a parte uno sconosciuto giornalista svizzero, Armando Libotte, che dopo il clamoroso 2-2 tra i brasiliani e, appunto, la Svizzera, scrisse: “I padroni di casa hanno due formidabili centravanti, non una vera difesa”. Poi la storia è di tutti, il dolore solo del Brasile. Tre uomini bastano per raccontarlo.
Il primo si chiama Alcides Edgardo Ghiggia ed è ancora vivo. Ha 88 anni, unico superstite tra i ventidue in campo quel giorno. Fu lui, oriundo italiano, a segnare al minuto 79 il gol che uccise un sogno e più persone di una bomba. Era un’aletta destra alta neppure un metro e settanta, ma piena di estro. Il suo tiro assassino sembrava un cross, invece no. «Soltanto in tre abbiamo zittito il Maracanã con un gesto: Frank Sinatra, Giovanni Paolo II e io».
Il secondo si chiama Obdulio Varela, ed era il capitano dell’Uruguay. Ruolo, centromediano metodista. Il trascinatore, non grande classe ma enorme carisma. Dopo il vantaggio brasiliano rimise in gioco il pallone con inaudita lentezza: voleva disturbare l’avversario, infilando un granellino di sabbia nell’ingranaggio. A lui, dopo, Jules Rimet consegnò il trofeo nel silenzio da obitorio dello stadio intero. La sera, a Rio, Obdulio passò di bar in bar, si ubriacò in incognito, piangendo abbracciato a coloro che aveva fatto piangere. Provò la massima pena di cui l’uomo è capace, quella che nasce dal dolore degli altri.
Il terzo si chiama Moacir Barbosa Nascimento, ed era il portiere del Brasile. Colpevole di generazione in generazione, in eterno e per sempre, di non aver capito che quel cross era invece un tiro. Dileggiato, indicato a dito per strada dalle nonne ai nipoti, evitato come la peste. L’antica storia del capro espiatorio, ma l’espiazione non esiste. Soffrì fino al 7 aprile 2000, quando il cuore finalmente gli si spaccò: come a quegli altri cinquantasei, però lui peggio, lui di più. Un infarto lungo mezzo secolo.

Maurizio Crosetti, la Repubblica 22/5/2014