Jennifer Schuessler, la Repubblica 22/5/2014, 22 maggio 2014
TOM WOLFE E L’ARTE DI ARCHIVIARE I NEMICI
Nel marzo del 1988, quando Il falò delle vanità di Tom Wolfe era in testa alla classifica dei libri, tutti sembravano sapere che al 962 della Quinta Avenue stava la sfarzosa residenza dell’amante di Sherman McCoy, il banchiere d’affari protagonista del romanzo. Tutti tranne una donna tanto fortunata – o sfortunata – da aver appena acquistato un appartamento a quell’indirizzo. «Essendo una persona molto riservata e desiderando rimanere tale, e non avendo interesse per lo stile di vita chiassoso che lei descrive», scrisse la donna a Wolfe, «provo imbarazzo quando gli amici ci informano che il nostro nuovo indirizzo è citato nel suo libro e ha acquisito una triste fama».
La prossima volta, chiedeva, non avrebbe potuto prendere misure per evitare di danneggiare un’altra “persona ignara?”. La lettera – una delle oltre diecimila presenti nell’archivio di Wolfe, che la New York Public Library, tra le più grandi biblioteche americane, ha acquisito nel novembre scorso per 2,15 milioni di dollari – rappresenta probabilmente uno degli esempi più bizzarri di protesta nella storia del mercato immobiliare di Manhattan. Ma è solo uno tra gli elementi degni di nota in una miniera di materiali che al centro servizi della biblioteca, nel Queens, stanno passando al setaccio: una cinquantina di metri lineari di manoscritti, taccuini, ritagli di giornali, scarabocchi e altro, per la gran parte conservati da Wolfe in eleganti scatole portadocumenti Queen Bee color arancione, fabbricate a Richmond, Virginia, la sua città natale.
«Sono uno che conserva tutto», ha detto l’ottantaquattrenne Wolfe in un’intervista. E ha aggiunto, alludendo all’acquisizione del suo archivio da parte della New York Public Library: «Non ho ancora deciso se mi fa sentire immortale o postumo». Quelle carte tramandano ai posteri non soltanto la visione di Wolfe. In quella miniera di documenti, c’è un filone di corrispondenza insolitamente ricco che mostra come editor, agenti letterari e semplici lettori (per non parlare dei suoi sarti, destinatari in certi casi di complicate istruzioni da parte sua) vedevano il grande scrittore. «Trovi lettere di perfetti sconosciuti archiviate accanto a lettere di persone importanti», dice William Stingone, direttore aggiunto della biblioteca per gli archivi e i manoscritti. «Ti trasmette una percezione accurata dell’evoluzione nel tempo del lavoro e della carriera».
Sul versante delle persone importanti, ci sono lettere di scrittori amici come Gay Talese, William F. Buckley Jr. e Hunter S. Thompson. Le sconclusionate missive di Thompson (per esempio una lettera di sei pagine in cui ribadisce di non aver mai definito La stoffa giusta , il libro di Wolfe del 1979 sugli albori del programma spaziale, “una pila di escrementi canini”), sembrano indicare una certa rivalità con Wolfe, pioniere come lui del New Journalism.
«Oops. Va bene, va bene, una volta ti ho definito “brontolone”», scriveva Thompson. Ma «tu sei anche stato così gentile da resistere alle costanti pressioni di quei maiali per spingerci a farci la guerra tra di noi». Brontolone o meno, a certi lettori dei primi libri Wolfe appariva come una sorta di Virgilio della controcultura: nel 1970, un ragazzo gli scriveva per chiedergli consigli sulla comune migliore in cui andare. Ma poi arrivò Radical Chic, il mordace resoconto di una cena di raccolta fondi per le Pantere Nere organizzata nel lussuoso appartamento di Leonard Bernstein a Park Avenue. L’articolo suscitò un vespaio quando fu pubblicato su New York Magazine, nel 1970. Da guru della cultura giovanile, Wolfe cominciò a essere visto come un reazionario.
Nello spesso mucchio di risposte all’articolo e al libro poi pubblicato figurano bigliettini di congratulazioni da parte di Talese (firmato “Don Corleone”), Katharine Graham e Raymond Price, assistente speciale di Richard Nixon. Uno sceneggiatore della Marvel gli scrisse per chiedergli se voleva collaborare a una storia a fumetti su «un immaginario gruppo di esponenti del bel mondo radical chic che si schiera con un gruppo militante (non afroamericano) che punta, si scopre poi, a prendere il controllo del pianeta». (Il risultato mostra Wolfe, vestito di bianco, che prende appunti mentre l’Incredibile Hulk partecipa a un ricevimento nell’Upper East Side.) Altri reagirono meno bene. Una donna che faceva Ortiz di cognome cancellò l’abbonamento a New York Magazine dicendo: «Non siamo animali da compagnia!». E mentre Barbara Walters gli scrisse per ringraziarlo di averla descritta «con tanta accuratezza», altri invitati a quel ricevimento gli indirizzarono commenti feroci. Una, firmandosi solo “Biondo Cenere” (in riferimento a come l’aveva descritta Wolfe nell’articolo), gli spedì una infuriata missiva di tre pagine per difendere le buone intenzioni del ricevimento. «Se non ci daremo tutti quanti seriamente da fare per un cambiamento costruttivo», scriveva, gli eventi futuri «faranno sembrare le Pantere Nere un tè per vecchie signore».
All’epoca della pubblicazione di A caccia della bestia da un miliardo di piedi , in cui Wolfe biasimava i romanzieri americani per aver abbandonato la tradizione del realismo sociale, alcuni lettori lo vedevano come un prepotente con smanie di protagonismo. «Dopo aver letto l’articolo di Tom Wolfe», scriveva un uomo di Woodstock «me lo sono immaginato che guardava dalla finestra del suo appartamento la “bestia da un miliardo di piedi” pensando: “Guarda quanti piedi da pestare!” ». Il falò delle vanità di sicuro ne pestò parecchi, e non solo sulla Quinta Avenue. Uno dei proprietari del marchio inglese di abbigliamento per uomo John Blades, gli scrisse esprimendo costernazione per il fatto che uno dei personaggi, l’“esecrabile” giornalista scandalistico inglese Peter Fallow, fosse stato descritto nel libro con indosso uno dei loro blazer. Il presidente del City College of New York gli inviò una lettera per correggere la descrizione della presunta elasticità dei loro criteri di ammissione. Il sardonico bigliettino d’amore di Wolfe agli eccessi degli anni Ottanta provocò anche reazioni più filosofiche. «Dopo aver letto Il falò delle vanità », gli scrisse un ammiratore di Baltimora, «mi viene spontaneo di porle la domanda più ovvia: ma perché si prende il disturbo di vivere a New York?». © 2-014 New York Times News Service (Traduzione di Fabio Galimberti).
Jennifer Schuessler, la Repubblica 22/5/2014