Cristiano De Majo, la Repubblica 21/5/2014, 21 maggio 2014
CERCATORI A CACCIA DI FOTO PERDUTE
Nel 2013 Matt Ames, un ricercatore specializzato in progetti che combinano arte e storia regionale, compra in un mercatino dell’usato di Roanoke, in Virginia, per dieci dollari una quantità di vecchi rullini fotografici. Quando li fa sviluppare, scopre che si tratta di cinquecento fotografie scattate negli anni Trenta, negli Stati Uniti e in Europa. Immagini di New York, ma anche cartoline di una famiglia in viaggio.
Appaiono in particolare foto scattate in Italia, molte delle quali a Napoli. Tra queste saltano subito all’occhio le scene di una parata nazista sul lungomare di via Caracciolo. Una grande stele ricoperta di svastiche davanti alla villa Comunale. Macchine e motociclette che sfilano verso Castel dell’Ovo. È il 1938. È la visita di Hitler a Napoli. E, proprio per questa casuale intersezione con la storia, quando vengono segnalate dal sito Peta Pixel – dopo che per un anno circa erano state sulla pagina Facebook di Ames senza riscontri – la notizia e le foto fanno il giro del mondo.
Guardare le immagini trovate da Ames produce nell’osservatore un effetto di verità. Anche sapendo che Hitler ha messo piede a Napoli o avendo già visto testimonianze fotografiche dell’evento, proviamo una strana vertigine. Per un verso perché sono scatti privati e non ufficiali; per un altro perché è come se fossero inseriti all’interno di una storia che non conosciamo – la storia di una famiglia americana in Italia – e che, guardando le foto, siamo tentati di scrivere di nostro pugno. Un procedimento mentale che può innescarsi naturalmente guardando qualunque immagine, o sequenza di immagini. Chi sono? Qual è la loro storia? Che genere di relazioni esistono tra loro?
Nel primo libro dello scrittore americano Richard Powers, intitolato Tre contadini che vanno a ballare... , c’è una formidabile costruzione narrativa su quello che sta dietro e intorno a una foto. Uno dei due protagonisti del romanzo guarda in un museo un celebre scatto del 1914 di August Sander e ne resta ossessionato al punto da tentare una ricostruzione dei tre contadini olandesi immortalati. Parallelamente la foto inizia a muoversi e i tre uomini prendono vita. La letteratura è come una bacchetta magica che li anima attraverso il racconto. Il nastro si riavvolge e poi riprende a camminare per mostrare come le vite di quei tre contadini siano arrivate a entrare in quello scatto.
Una fotografia vernacolare, cioè amatoriale, dietro alla quale non ci sono intenzioni artistiche o giornalistiche offre libertà interpretative ancora maggiori. È questo il caso delle foto ritrovate a Roanoke di cui non si sa chi siano autori e soggetti. Forse usciranno fuori, forse no. Per la ricorrente presenza di stabilimenti della Mobil, Ames ipotizza che il proprietario della macchina fotografica fosse un ingegnere dell’azienda petrolifera. Ma chi ci impedisce di immaginare, invece, che non fosse una spia? Magari un agente segreto incaricato dall’esercito americano di organizzare un attentato a Hitler in Italia? La tesi moraleggiante che l’invenzione della tecnica fotografica abbia vampirizzato la realtà si scontra con il ventaglio di ipotesi che si possono produrre davanti a un’immagine muta. E proprio l’ambiguità dell’immagine, la sua passibilità di essere interpretata, sta alla base della found photography.
Con l’espressione s’intendono, in realtà, due attività simili ma sostanzialmente diverse negli obiettivi. Nella sua prima declinazione, la found photography è una modalità artistica che trova le sue radici nella poetica del ready-made duchampiano. John Baldessari e Christian Boltanski, per esempio, hanno entrambi lavorato sul “ritrovamento” di immagini e la loro decontestualizzazione per i rispettivi e ugualmente elaborati discorsi sul rapporto tra realtà e finzione (Baldessari) e sulla memoria (Boltanski). Dopo i Sessanta-Settanta, la modalità si è sempre più spostata dal riutilizzo al ritrovamento in sé e per sé, come si può vedere nei lavori di quello che è forse il più importante archivista-fotografo di questi anni, il tedesco Joachim Schmid che ha dichiarato «Nessuna nuova fotografia finché non saranno utilizzate fino in fondo quelle già esistenti!». Ma in questo senso è da segnalare Found photos in Detroit , un progetto diventato libro dei due fotografi italiani Arianna Arcara e Luca Santese, protagonisti di un casuale ritrovamento di fotografie abbandonate in quella che negli ultimi anni è la città con il più alto tasso di emigrazione d’America. Nel loro caso, centinaia di volti abbandonati ritrovati in vecchi edifici pubblici (tribunali, scuole, ospedali) e ricomposti nella cornice di un’opera artistica hanno finito molto naturalmente per testimoniare un abbandono più grande e generale: il collasso della tradizionale economia industriale americana, il tradimento di una promessa.
Nella sua seconda declinazione, la found photography è, invece, un’attitudine amatoriale, come racconta Other’s People Pictures di Lorca Shepperd e Cabot Philbrick, documentario del 2004 che segue le storie di un gruppo di appassionati ritrovatori intorno a un mercatino dell’usato di Manhattan. Gente che cerca foto abbandonate come hobby della domenica. Collezionisti che guardano immagini di sconosciuti per il brivido di scrivere mentalmente la propria versione di centinaia di storie individuali e famigliari destinate all’oblio. Basta del resto dare un’occhiata al sito foundphotos.
net , che è la traduzione digitale di quest’hobby così analogico. Nato, si legge nella presentazione, scaricando per sbaglio da un sito di condivisione una cartella di immagini private, ha finito per diventare un bizzarro museo della foto vernacolare ai tempi di Internet. Un cane sul bordo di una piscina, un ragazzo che dorme su un letto accanto a un panino mezzo mangiato, un selfie di due fidanzati, gruppi di teenager ubriachi, bambini con la faccia sporca di cioccolata. Ridicole o imbarazzanti, squallide o deprimenti, sono altrettante storie, o abbozzi di storie, che prendono forma nella testa dell’osservatore.
Susan Sontag ha scritto: «Collezionare fotografie è collezionare il mondo», ma anche: «Il nostro ciarpame è diventato arte. È diventato storia». Di arte si tratta sicuramente nel caso di Vivian Maier, tata, ma soprattutto grande fotografa “ritrovata” da John Maloof, che ne ha scovato centomila negativi, da cui sono stati sviluppati ritratti perfetti di Chicago e New York, tra gli anni Sessanta e il 2009.
È persino banale osservare che la mole di immagini prodotte nel combinato effetto della tecnologia digitale con i social network ha fatto diventare il voyeurismo una consuetudine quotidiana. Tutti i giorni passiamo in rassegna un repertorio di volti, corpi, interni che ci sono del tutto estranei. Viene detto comunemente che viviamo in una società concentrata in modo ossessivo sul presente, ma a pensarci bene il luogo comune sarebbe da riformulare in: viviamo in una società ossessivamente concentrata sul passato prossimo. L’oceano di immagini digitali su cui galleggiamo è come un caotico collage di micropassati. Il nostro voyeurismo vive continuamente in equilibrio tra essere una forma di perversione e un tentativo di ricostruzione.
Se proprio poche settimane fa, ad Alamogordo in New Mexico, è stato scoperto un cimitero di cartucce Atari, seppellite nel 1983 in occasione della crisi dei videogiochi per l’impossibilità di smaltire l’eccessiva produzione di titoli, non è così ardito o fantascientifico allora ipotizzare un futuro non molto lontano in cui archeologi amatoriali, invece che nei mercatini dell’usato, cercheranno nelle discariche tra resti di hard disk e carcasse di server testimonianze del nostro passato più recente. Ritratti di famiglia abbandonati in schede di espansione potranno diventare oggetto della nostra curiosità, suscitare la nostra tenerezza, essere la lampadina che accende la nostra umana tendenza a raccontarci storie.
Cristiano De Majo, la Repubblica 21/5/2014