Oscar Giannino, Il Messaggero 22/05/2014, 22 maggio 2014
TUTTI I RISCHI DI UNA CRESCITA PLANETARIA CHE NON C’È
È ripartito lo spread, e riparte anche il pessimo gioco della politica italiana di dividersi sulla sua interpretazione. Ieri, per una frazione di giornata, il differenziale di rendimento dei titoli pubblici decennali sui quelli tedeschi ha toccato quota 200, rispetto al corridoio 150-160 sul quale si era assestato in graduale discesa sino alla settimana scorsa. Poi lunedì un primo violento strappo verso quota 180, e ieri un altro picco, prima di tornare poco sotto 180 grazie anche a un’asta di titoli tedeschi parzialmente fallita (i tedeschi non tengono aste pubbliche variando l’interesse a piazzamento in corso se la domanda è debole, come noi, ergo se il mercato “non beve” il bassissimo tasso offerto e i titoli restano invenduti, come è capitato ieri per 1,2 miliardi).
Per spiegare il riaccendersi dello spread, bisogna tenere presenti tre diversi fattori. Il primo è l’andamento di medio periodo dei flussi di capitale sui mercati internazionali, indotti dalle politiche monetarie delle maggiori banche centrali. Il secondo è l’evoluzione dei dati reali delle diverse macroaree mondiali. Il terzo è naturalmente il giudizio sul maggiore o minore rischio di solvibilità riconosciuto all’Italia, dovuto alla sua stabilità politica e alla stima che i mercati fanno del suo programma di riforme. Per essere corretto e onesto, l’analista economico che affronti il tema deve spiegare che i primi due elementi hanno avuto un’importanza maggiore di quello domestico, da molti mesi a questa parte.
Il ritorno in massa dei capitali verso l’area Ocse dei «vecchi» Paesi industrializzati abbandonando i Paesi emergenti in cui si erano diretti a caccia di alti rendimenti e supportati da elevati tassi di crescita reale, ha iniziato a determinarsi l’anno scorso per effetto del tapering della Fed, cioè del graduale programma di diminuzione degli acquisti di titoli sul mercato operati dalla banca centrale statunitense per sostenere prezzi e andamenti dei mercati finanziari (molto più questi che l’economia reale). È soprattutto questo fattore «mondiale» ad aver riportato in massa i grandi investitori esteri verso i titoli dei Paesi eurodeboli, come Italia e Spagna, e ad aver consentito il ritorno alle emissioni pubbliche a tassi accettabili di Irlanda, Portogallo e Grecia. Ma dall’inizio del 2014 ha cominciato a profilarsi il secondo fattore: una crescita mondiale che addensava elementi di minor solidità di quella prevista. Il motore della crescita planetario, cioè il commercio estero, è atteso in crescita ormai del 2,3-2,5% nel 2014, cioè a tassi pari alla metà di quelli dei ruggenti anni precrisi, e comunque di molto inferiori anche a quanto avvenne nel 2010, passata la grande paura di Lehman Brothers e prima che esplodesse l’eurocrisi. Purtroppo, i dati del primo trimestre 2014 hanno confermato questa tendenza. Due settimane fa l’Ocse ha abbassato la crescita attesa 2014 per Russia, Cina, Usa, Giappone, Turchia, Brasile. I tassi sono molto diversi tra loro, dal più 7,6-7,8% cinese al risicato più 0,5% russo, ma quel che conta è la dinamica complessiva. Una dinamica che risospinge i mercati finanziari verso l’instabilità, la volatilità dovuta alla ricerca di rendimenti non per macroaree ma per specializzazioni. In tutto questo, il secchio di acqua più ghiacciata è stato per molti versi quello europeo.
Nei dati reali del primo trimestre, il Pil della Francia è inchiodato a quota zero, quello dell’Italia a meno 0,1%, l’Olanda ha registrato un meno 1,4%. La Spagna va bene con un più 0,4%, enormemente rilanciato però da un’ingente diminuzione dell’import dovuta ancora alla crisi interna. L’Italia è in una condizione che richiede riflessioni. Mentre Portogallo e Irlanda sono usciti dalla vigilanza della Troika, anche la Grecia che pure è ancora in recessione risale trimestre per trimestre più dell’Italia. Che è ferma. È ferma per ragioni strutturali. Per la gravità di ciò che ha perso sul suo mercato domestico: tra il 2008 e i 2013 il fatturato dell’export manifatturiero italiano è – per un miracolo di capacità – migliorato di 16 punti. Più di quello tedesco e tre volte più di quello francese. La differenza è che negli stessi anni sul fronte domestico italiano il fatturato scendeva del 15,9%, in Francia cresceva del 4%. Di fronte a queste cifre, i minisgravi fiscali varati da Letta prima, e gli 80 euro di bonus decisi dal governo Renzi ora non bastano probabilmente a raddrizzare i consumi interni.
E veniamo al terzo fattore, quello politico, della stabilità e credibilità delle riforme promosse dai governi italiani. Non c’è dubbio che la nascita e il tumultuoso piano di riforme annunciato dal governo Renzi ha dato un mano alla riduzione dello spread. Però i mercati sanno che oltre quota 200, toccata ieri e prevista nel Def come obiettivo annuale, i conti per il 2014 non tornano più perché saltano i 3 miliardi di risparmi preventivati sul debito e si torna a un deficit del 3%. I mercati sanno che i tagli di spesa sinora decretati per il 2014 son di poco inferiori a 3 miliardi – con 700 milioni a carico delle Regioni ancora tutti da chiarire – mentre i 15-17 previsti nel 2015 sono già oggi praticamente tutti impegnati, per far diventare strutturale il taglio degli 80 euro estendendolo inoltre agli incapienti e per finanziare gli ammortizzatori sociali, senza dunque che avanzi alcunché per finanziare altri sgravi fiscali. E i mercati sanno anche che, con una crescita reale 2014 pari alla metà del più 0,8% promesso dal governo, mancheranno anche entrate fiscali. Bruxelles si dovrà pronunciare nei primi giorni di giugno e sarebbe un azzardato chiedere due anni di slittamento invece di uno proprio tre settimane prima dell’inizio del semestre italiano di presidenza europea. Si aggiungano i timori di forte instabilità se Grillo arriva primo alle europee. E si aggiunga anche il fatto che Grillo non fa mistero di voler ripudiare gran parte degli impegni presi con l’Europa. Ecco spiegato perché lo spread ha ripreso a ballare. A giugno una mano la darà l’ormai stra-annunciato impegno della Bce a varare nuovi strumenti d’intervento per contenere la deflazione. Ma c’è poco da fare. È la politica italiana che non vuol capire che le riforme vanno fatte sul serio e in fretta, per riprendere innanzitutto produttività comparata e non solo per il rientro del debito pubblico.