Federico Varese, La Stampa 22/5/2014, 22 maggio 2014
COMBATTERE LA TORTURA A TRIPOLI
Nei prossimi giorni può iniziare una nuova guerra civile in Libia. Le truppe di un ex generale del vecchio regime, Khalifa Haftar, hanno sferrato domenica attacchi coordinati contro il Parlamento a Tripoli e contro milizie islamiste a Bengasi. Il primo ministro ha denunciato il tentativo di colpo di Stato. Ma sarebbe troppo semplice descrivere gli eventi in Libia come uno scontro tra rivoluzione e ancien régime. Il governo ufficiale è ostaggio di milizie armate che regolarmente rapiscono cittadini sospettati di collaborazionismo con Gheddafi e li gettano in carceri segrete. Un rapporto recente delle Nazioni Unite parla di 27 persone morte per i postumi delle torture subite in prigioni governative.
A loro volta, i golpisti annoverano tra le loro fila elementi liberali, ma anche individui compromessi con Gheddafi e un gruppo berbero di pessima fama per le sue violenze contro i civili. La Libia è oggi una giungla di uomini armati, dove le distinzioni astratte - islamisti, liberali, democratici - hanno poco valore. In questo mondo dove la violenza è ovunque, l’incarico più pericoloso e forse futile è quello svolto da Currun Singh, ventotto anni, responsabile a Tripoli dell’ufficio dell’Organizzazione Mondiale contro la Tortura (Omct).
Nato in Kuwait da genitori indiani poi immigrati negli Stati Uniti, Currun ha ottenuto due anni fa un Master alla Erasmus University di Rotterdam con una tesi sulla pirateria somala, tema di cui non ha mai smesso di occuparsi (di recente un suo articolo è apparso sul New York Times). La vita accademica, però, non fa per lui. Agile, alto, con un fisico da atleta e capelli corti scurissimi, Curran ha lo spirito del ribelle e i modi impeccabili di un signore d’altri tempi. Dopo un periodo in India e a Chicago, ha deciso di tornare alla sua passione per i diritti umani in Africa e ora guida un team di quattro persone e una ventina di volontari nel cuore di Tripoli. Il suo gruppo documenta gli abusi commessi nel passato e nel presente, e offre assistenza alle vittime. Almeno diecimila persone sono scomparse dopo la rivoluzione, e il compito di questi volontari è scoprire che ne è stato di loro: un lavoro talmente delicato, che la sede dell’Organizzazione è segreta.
«La cosa più complessa in queste ore è distinguere i fatti dalla finzione», mi dice Currun al telefono da Tripoli in una delle nostre recenti conversazioni. «La situazione è tesa. Ci sono stati un’ottantina di morti nel fine settimana, e diverse centinaia di feriti. Gli analisti fanno scenari, ma è impossibile capire fino in fondo quali siano le motivazioni di questi eserciti e le loro alleanze future». Il nuovo uomo forte, il generale Haftar, ha promesso al Paese di metter fine all’insicurezza, soprattutto nell’Est del Paese. «La situazione a Bengasi è fuori controllo. Avvocati, medici, professionisti vengono trucidati con la scusa del collaborazionismo col passato regime, ma sono vendette private». La Libia di oggi è un Paese allo stremo, in preda al terrore. Non stupisce che Haftar abbia un certo sostegno nella popolazione.
L’associazione di Currun opera in Libia da due anni. «Abbiamo documentato oltre duecento casi di tortura avvenuti prima e dopo la rivoluzione». Molti di questi morti atroci avvengono nelle carceri gestite dal Comitato della Sicurezza Suprema (parte del ministero dell’Interno), l’incarnazione rivoluzionaria della polizia segreta di Gheddafi. La Procura Generale ignora le denunce per timore di rappresaglie da parte delle milizie e l’ingiustizia si alimenta grazie all’ignoranza, all’impossibilità di sapere. «Quando una persona scompare, oppure viene trovata trucidata al bordo di una strada, nessuno sa darsi una spiegazione plausibile e spesso non sappiamo dove sia il corpo. Vi sono mille possibili ragioni, ma non esiste una polizia in grado di indagare, una stampa che faccia una denuncia. Le famiglie non hanno risposte. È questa l’ingiustizia suprema, l’ingiustizia del non sapere».
I quattro dipendenti, coadiuvati da una rete di attivisti e professionisti, fanno del loro meglio per proteggersi. «Non portiamo armi, viaggiamo senza scorta, siamo integrati nel contesto locale. I nostri uffici sono un luogo dove le vittime si sentono sicure e vengono a raccontare le loro storie». Ma negli ultimi mesi le minacce sono aumentate. Un avvocato è stato rapito e torturato, il suo corpo gettato da una macchina in corsa. In un altro caso, un medico è stato ucciso davanti ai figli. «Quando possibile, facciamo espatriare i nostri collaboratori. Alcuni oggi vivono in Tunisia».
Mi chiedo che senso abbia difendere i diritti umani in un luogo dove non esiste il diritto. Currun cerca la verità in un mondo dove è quasi impossibile trovarla. Come nella Russia sovietica raccontata da Viktor Serge o nella Cecenia di Anna Politkovskaja, documentare gli orrori è l’unico atto rivoluzionario possibile. Nella nostra ultima conversazione Currun mi dice che ha consigliato al suo staff di non venire in ufficio. Il giovane ribelle, oggi, è solo.