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 2014  maggio 15 Giovedì calendario

GIUSEPPE ROSSI


Ci accomodiamo su un divano di pelle color tabacco al centro della library lounge di Palazzo Tornabuoni, dove il patron Diego Della Valle lascia soggiornare solo le persone che gli stanno più a cuore. C’è Mister Montella al piano nobile, ad esempio. E poi Giuseppe Rossi detto Pepito, detto America, oppure El bambino, che vive la sua avventura fiorentina da un appartamento tutto bianco con vista sulla cupola del Brunelleschi. Un canadese alticcio con gomito d’ordinanza appoggiato al bar, ospite di chissà chi, da venti minuti cerca di attaccargli bottone chiamandolo “Mr shorts”, dopo averlo visto posare per Icon in pantaloncini bordeaux. Pepite alza il pollice e dice “I like it man”, sta allo scherzo con gusto e intanto rinfresca il suo inglese con accento del New Jersey, il posto dove è nato nel 1987 e che ha lasciato a dodici anni per giocare a Parma, poi a Manchester, quindi nel Villareal e finalmente in Italia coi viola («il mio cuore è ancora là» dice, «insieme a mia madre e mia sorella Tina). Nel suo presente ci sono la riabilitazione da un brutto infortunio, la speranza di partire con l’Italia di Prandelli per Brasile 2104 e le sedute di fisioterapia col fidato Luke Buongiorno, italoaustraliano di Melbourne che non lo molla mai. O al limite, se la fortuna girerà male, la consolazione di un’estate nel suo appartamento di New York, dove la sua fidanzata Jenna Lynn lo aspetta al piano alto di un grattacielo di Midtown.
Perché una donna che si chiama Cleonilde ha chiamato suo figlio Giuseppe?
«Perché per lei, emigrata in un Paese lontano, era importante che avessi un nome italiano. Lo stesso di mio nonno, ovviamente».
Sei americano di prima generazione?
«No. Dopo la Seconda guerra mondiale i miei nonni paterni sono partiti da Fraine, in Abruzzo, per cercar fortuna. E idem hanno fatto i genitori di mia madre, arrivata dal Molise. Si sono incontrati a quindici anni, alla Clifton High School, dove alla fine sono diventati entrambi insegnanti».
A Clifton ci hanno girato i Sopranos.
«Anche Donnie Brasco se è per questo. Molti attori venivano a mangiare a Del Pino, il ristorante dei miei zii».
Dopo la sua morte, in quella scuola hanno dedicato un monumento a tuo padre Fernando.
«Sì, con scritto “Beloved educator, coach and mentor”. Ha insegnato e allenato la squadra di calcio dei Clifton Stallions per 25 anni, la stessa dove ho cominciato anch’io. Ha costruito una mentalità basata sul rispetto e sulla considerazione dell’individuo, al di là delle capacità sportive e del talento».
Ti consideri il prodotto perfetto dell’ideale di tuo padre?
«Diciamo che se dovessi scegliere qualcuno a cui somigliare, sceglierei lui. Il mio eroe».
Perché hai un taglio di capelli così marcatamente “normale”?
«Non c’è un motivo. Semplicemente, non mi va di cambiare le cose che vanno bene così come sono».
Neanche una scalatura o l’accenno di un ciuffo o una rasatura. Un’indifferenza troppo curata per non avere un significato.
«Non ce l’ha, davvero. Non metto abiti appariscenti, non faccio esperimenti con la barba, non cerco quel tipo di attenzione. C’è una parola inglese che riassume il modo in cui vivo e in cui mi vedo: plain».
Che vuol dire naturale, liscio.
«Esatto. Plain works for me».
Non trovi incredibile non essere scivolato nell’anonimato?
«No, affatto. La popolarità è venuta da sola, grazie alla mia passione, facendo bene quello che faccio. Io giocherei a calcio ogni giorno della mia vita. E la fama non è mai una distrazione, non entra in nessun modo nella mia vita di calciatore. Io sul campo penso solo a competere e a vincere».
In che zona di New York hai comprato l’appartamento?
«A Midtown, tra la quinta e la trentacinquesima strada. Il punto di partenza perfetto per una nottata in giro per la città».
Quali sono le prime tre cose che fai appena arrivi a Manhattan?
«Vado a caccia di un buon ristorante: asiatico, cubano, brasiliano o messicano, mi piace sperimentare. Poi amo vedere le partite dei New York Knicks al Madison Square Garden, o quelle dei Nets a Brooklyn. Se posso non mi perdo neppure una gara dei Rangers, squadra di hockey con lo stadio a un passo da casa mia».
Sei tipo da club?
«Solo d’estate, quando il campionato è finito. Mi piace la discoteca in cima al Dream Hotel, sulla sedicesima strada».
La serata ideale con la tua fidanzata Jenna Lynn invece?
«Una bistecca porterhouse da Keens, sulla trentaseiesima strada, e poi una notte di cabaret al Comedy Strip. Credo di non aver mai riso così tanto in vita mia».
Non ti senti un alieno nel mondo del calcio?
«Diverso, vuoi dire?».
Si, insomma, con una vita varia.
«Senti. Io mi esibisco di fronte a migliaia di persone, ma là fuori ho il dovere di comportarmi come gli altri. Anch’io ho i miei miti: Kobe Bryant ad esempio, o Roger Federer. Ma lo sono soltanto per i gesti tecnici che sanno fare. Fuori dal campo, le superstar non esistono». (r.p.)