l’Unità 21/5/2014, 21 maggio 2014
AFFARI MILIARDARI, RECORD ITALIANO NELL’EXPORT CON TRIPOLI
Una «nuova Somalia» alle porte del nostro Paese. Un incubo che si sta trasformando in realtà. È la Libia oggi. Un Paese in mano a milizie armate, a gruppi jihadisti, a bande di trafficanti di esseri umani. Per l’Italia è allarme rosso. Non solo perché come affermato nei giorni scorsi dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, dalla Libia provengono il 96% dei disperati che cercano la salvezza, ma in migliaia hanno trovato la morte, sulle carrette del mare, destinazione Lampedusa. È allarme rosso per l’Italia anche per un’altra ragione. Una ragione miliardaria. È il giro d’affari che le aziende pubbliche e private del Belpaese hanno con il destabilizzato, ma ricco, Paese nordafricano. Un dato per tutti. L’Italia nel 2013 ha visto il proprio export raggiungere il massimo storico, 2,87 miliardi di euro, 19,3% in più rispetto al 2012 (l’ultimo record, di 2,7 miliardi, risaliva al 2010). A garantire questo picco miliardario sono stati soprattutto i settori dell’abbigliamento, degli autoveicoli, degli elettrodomestici e dei prodotti alimentari. L’interscambio economico tra Italia e Libia ammontava nel 2012 a 4,585 miliardi.
PRIMO PARTNER
L’export italiano verso la Libia è aumentato del 305% e quello libico verso l’Italia del 211%. In cima alla lista del nostro export ci sono le macchine per la lavorazione di metalli e utensili, apparecchiature elettriche, alimenti confezionati. L’export libico è invece soprattutto petrolio, mentre le esportazioni italiane contano soprattutto sui prodotti derivati dal petrolio, raffinati e lavorati e rivenduti ai libici.
Eni conferma che i flussi di gas verso il nostro Paese, attraverso il gasdotto Greenstream, sono stati spesse volte interrotti negli ultimi giorni, a causa delle proteste berbere. Secondo Paolo Scaroni, ex ad del gruppo Eni, l’Italia può comunque superare un inverno senza il gas libico, benché Tripoli contribuisca al 12% del nostro fabbisogno quotidiano di oro blu. Ma al di là di questo, l’Italia trova nella crisi libica un’inesauribile fonte di guadagno: se in un primo momento l’intervento Nato contro Gheddafi e la conseguente instabilità sembravano aver inciso negativamente sul volume di affari italiani, a due anni di distanza Roma si è invece confermata il principale partner economico di Tripoli.
Eni e non solo. Tra l’Italia e la Libia, fino a prima dello scoppio della guerra esisteva un interscambio commerciale di 14 miliardi di euro. Anche nel 2012 l’Italia si è confermata il primo partner commerciale di Tripoli e il terzo fornitore (dopo Cina e Turchia). Il primato di Eni nell’estrazione di idrocarburi – 116mila barili al giorno – è rimasto invariato, e nuovi contratti sono stati siglati. Iveco sta lavorando con il ministero dei Trasporti per la fornitura di mezzi, e Sirti con quello delle Comunicazioni per creare una rete di telecomunicazioni che oggi manca. A breve dovrebbero aprire gli aeroporti di Misurata e Bengasi, nei cui lavori sono coinvolti il Gruppo Salini e il Gruppo Con.I.Cos, saldamente radicato in Libia. E l’autostrada costiera da Tripoli a Bengasi, la cui gara fu vinta nel 2008 da un consorzio guidato dall’italiana Saipem, si farà. In quest’ottica devono essere letti anche la costituzione a fine ottobre dell’associazione Progetto Italia Libia (Apil) che dovrebbe favorire l’ingresso nel Paese africano di piccole e medie imprese, principalmente del settore infrastrutture, e la presenza massiva dell’Italia al Libya Rebuild 2014, la fiera internazionale sull’edilizia e le infrastrutture, che si è tenuta a febbraio a Tripoli.
Eni, Impregilo, ma anche Astaldi, Finmeccanica, Fiat. La società aerospaziale italiana aveva siglato nel 2009 un accordo con la Libia per la cooperazione nel settore aerospaziale e di altri progetti in Medio Oriente e Africa. L’accordo prevedeva la creazione di una joint venture 50-50 con la partecipazione di Finmeccanica e il Libia Africa Investment Portfolio. Finmeccanica ha anche vinto diversi contratti dalla Libia, tra cui uno per la costruzione di ferrovie del valore di 247 milioni di euro. Accordi che le «autorità» libiche del dopo-Gheddafi hanno voluto ridiscutere ma non annullare. Così come sono ancora aperti nel Paese nordafricano gli sportelli di Unicredit. Ora tutto questo rischia di essere se non azzerato, fortemente ridimensionato. Per l’Italia sarebbe un disastro. Allarme rosso. Come i conti.