Federico Rampini, la Repubblica 20/5/2014, 20 maggio 2014
LA BATTAGLIA DEL SALARIO MINIMO
NEW YORK
Gli azionisti di Mc Donald’s si riuniscono dopodomani a Oak Brook nell’Illinois. Un ospite insolito si presenterà all’assemblea: il sindacato dei lavoratori dei fast food. Un picchetto di protesta accoglierà gli azionisti con una richiesta semplice: 15 dollari all’ora. I fast food sono sotto pressione, nella battaglia per alzare i salari minimi, e non a caso. Il premio Nobel dell’economia Paul Krugman ha calcolato che in questo settore — in generale in tutti i servizi come la ristorazione e la grande distribuzione — i salari reali di oggi sono più bassi del 30% rispetto al 1973. La battaglia del salario minimo diventa globale. La Germania si è mossa per prima. Il salario minimo tedesco è stato fissato a 8,50 euro l’ora, una concessione di Angela Merkel al partito socialdemocratico per fare la grande coalizione, ed entrerà in vigore entro fine 2015. Molti imprenditori tedeschi l’hanno presa male, lamentano danni alla loro competitività. A dargli man forte ora giunge il Fondo monetario internazionale, “preoccupato” per gli effetti del salario minimo sulla ripresa. La pensa così anche la maggioranza degli elettori svizzeri, che domenica hanno bocciato il referendum per fissarlo a 22 franchi (18 euro) l’ora. Sarebbe stato il salario minimo più alto del mondo, e anche se le remunerazioni elvetiche sono già tra le più generose, gli elettori hanno confermato la loro allergia per gli interventi statali che “interferiscono” con il libero mercato (gli stessi svizzeri avevano bocciato un altro referendum che voleva regolare gli stipendi dei top manager, in quel caso per porre un tetto massimo).
Il liberismo rimane un’ideologia forte anche qui negli Stati Uniti: invano Obama continua a rilanciare la sua proposta, di alzare il minimo federale dagli attuali 7,25 fino a 10.10 dollari l’ora (un livello comunque più basso di quello tedesco, che vale 11,5 dollari). Perfino al Senato, dove i democratici hanno la maggioranza, non si sono raggiunti i voti necessari per far passare la legge. Obama non si arrende. Ad ogni discorso pubblico, e nelle “chiacchierate alla radio” del sabato mattina, continua a battere sullo stesso tasto. «Alzare il salario minimo — dice il presidente — è uno strumento importante per aprire nuove strade di accesso alla middle class, a un tenore di vita dignitoso, e garantire che in America se lavori duro, puoi farcela». È convinto che questo sia un tema vincente per i democratici alle elezioni mid-term di novembre. In tutti i sondaggi, una maggioranza di americani si dice favorevole ad un salario minimo più alto. Obama non esita a sfidare McDonald’s: la settimana scorsa è uscito dalla Casa Bianca a piedi insieme con il suo vice Joe Biden, è andato a mangiare dietro l’angolo dal concorrente Shake Shack: «Ecco un posto che fa degli ottimi hamburger, e paga dieci dollari l’ora». Beccatevi questo, McDonald’s e Burger King, una paga decente ai dipendenti non ha rovinato nessuno.
Mentre il Congresso è bloccato dai veti repubblicani, la battaglia in America prosegue ad altri livelli. Nei fast food il sindacato cerca di estendere la mobilitazione della base. Ci sono state proteste e picchetti in 150 città Usa. Ma i numeri degli aderenti agli scioperi sono bassi. Le Unions hanno perso molta influenza, la loro base si è ridotta drammaticamente da trent’anni in qua. Inoltre la manodopera tipica dei fast food è fatta di immigrati: timorosi che uno sciopero possa esporli a rappresaglie, ritorsioni. Il movimento sindacale adotta un nuovo slogan, Fast Food Forward , e chiede solidarietà all’estero: in quelle aree del mondo dove le organizzazioni dei lavoratori sono più forti, e il fatturato dei fast food è in crescita. Arrivano gesti di solidarietà dall’Europa, dal Giappone, dal Brasile, dall’India.
A un altro livello sono i sindaci delle città più progressiste che portano avanti la battaglia di Obama. A New York Bill de Blasio vuole cominciare con un aumento del salario minimo obbligatorio in tutte le aziende che hanno appalti pubblici. Un laboratorio ad alta visibilità è la città di Seattle, punta settentrionale della West Coast, nello Stato di Washington. Il sindaco di Seattle, Ed Murray, vuole un salario minimo locale di 15 dollari l’ora, cioè il 50% in più dell’obiettivo fissato da Obama a livello federale. Seattle è nota come “la San Francisco del Nord”: molto liberal, e ad alta concentrazione di aziende tecnologiche. Ha un valore simbolico evidente, perché è la sede di colossi del made in Usa, dalla Boeing a Microsoft. Ma è anche la sede di Starbucks, la catena di caffè che impiega eserciti di camerieri; e di Amazon, un gigante del commercio digitale che non esita a sfruttare manodopera poco pagata nei suoi mega-magazzini di deposito e smistamento merci. «Alzare il salario minimo — dice il sindaco Murray — è la via maestra per ridurre il tasso di povertà in questa città».
Dietro la questione del salario minimo infatti affiora un tema ancora più vasto e drammatico: l’impoverimento dei lavoratori americani, anche in settori e professioni che un tempo erano considerate “ceto medio”. Oggi il salario minimo riguarda ben 30 milioni di lavoratori. «Per quarant’anni — denuncia Krugman — gli aumenti del salario minimo sono stati inferiori all’inflazione. Il risultato è che in termini reali, in potere d’acquisto, il salario minimo è molto inferiore agli anni Sessanta. Nel frattempo, la produttività dei lavoratori è raddoppiata». Chi si è appropriato di quell’aumento di produttività? La risposta: i profitti.
La motivazione della destra repubblicana, sempre schierata con le lobby confindustriali: guai a interferire con il libero mercato, alzare il salario per legge significa spingere al fallimento molte piccole imprese, quindi in ultima istanza ridurre l’occupazione. Potenza dell’ideologia liberista, o degli interessi costituiti? A quanto pare il livello delle retribuzioni non incide sulla competitività delle aziende... solo se stiamo parlando degli alti dirigenti, i cui compensi stratosferici vengono concordati dentro i consigli d’amministrazione, sempre in nome del libero mercato. «Alzare i salari nei fast-food non danneggia la competitività — spiega Krugman — perché è un settore non esposto alla concorrenza della Cina, nessun consumatore si sposterà a Shanghai per hamburger e patatine. È falso che l’occupazione ne risenta, quegli Stati Usa che hanno i salari più alti hanno una disoccupazione eguale o inferiore alla media». E proprio come ci si attende che accada in Germania, un aumento dei minimi fa salire tutta la struttura delle retribuzioni. Quindi dà una mano al potere d’acquisto e ai consumi delle famiglie, grandi assenti di questa ripresa.
Federico Rampini, la Repubblica 20/5/2014