Vittorio Zucconi, la Repubblica 20/5/2014, 20 maggio 2014
“IL NYTIMES RESTA TATUATO SU DI ME” L’AMAREZZA DI JILL REGINA PUGNALATA
WASHINGTON
«Parlo a chi di voi è stato scaricato come me», e i ragazzi e le ragazze ridono con lei, ma con rispetto: dagli altari del giornalismo all’umiliazione brutale della caduta, Jill Abramson, l’ex imperatrice del giornalismo mondiale licenziata in tronco dal New York Times, si confessava a loro per la prima volta in pubblico, davanti agli studenti dopo la sua brutale deposizione. Da un previsto sermone sulla libertà di stampa, previsto quando dominava il mondo dell’informazione, la Abramson ha dovuto editare in fretta il suo intervento per ammettere di «non sapere che fare» dopo la cacciata dal trono. «Mi resta il pensiero di mio padre — ha detto agli studenti della Wake Forest University dove ha pronunciato il discorso di fine anno ai laureati — che sarebbe stato orgoglioso di me».
«Fa male, molto male», deve ammettere e il suo tentativo di fare un po’ di ironia sulla sua umiliazione non nasconde il dolore: «Sono meravigliata e ammirata dal fatto che la vostra cerimonia di laurea abbia attirata tanta attenzione».
Come una bambina che torni tra le braccia del papà a cercare rassicurazione e conforto dopo essersi sbucciata un ginocchio, questa formidabile giornalista di 60 anni, madre di due figli, sposata allo stesso uomo da trentatré anni, oggi nuota da sola nell’acquario dei pescecani dei media, accompagnata da «un piccolo circo mediatico », aggiunge con involontaria ironia essendo stata proprio lei la domatrice e direttore di pista del più prestigioso circo mediatico del mondo.
Jill era stata scelta nel 2011 dal Arthur Ochs Sulzberger proprietario del New York Times ed erede della dinastia che dal 1896 lo controlla, come la prima donna direttore di quella «Signora in Grigio» — il soprannome del più famoso quotidiano del mondo — che mai aveva avuto una signora vera ai comandi. «Ora so anche io che cosa significhi essere sconfitti e scaricati, ma come mia sorella mi ha ricordato, nostro padre ci aveva insegnato che la misura di una persona è data da come si affrontano le sconfitte e non il successo». Una misura che lei aveva affrontato non soltanto nello spirito, ma nel corpo quando sette anni or sono in Times Square, non molto lontano dal grattacielo del New York Times sul quale ha regnato, era stata investita da un camion, sopravvivendo a fatica. «Tra quel disastro e quello di oggi, qualcuno comincerà a chiamarmi Calamity Jill».
La sua ascesa al massimo trono dell’informazione mondiale in un mondo, come ha puntualmente notato, ancora «dominato dai maschi», pochi anni dopo la vittoria di Barack Obama alle presidenziali, era stata vista e sfruttata dall’editore come un altro auspicio luminoso del crollo delle barriere di razza, di colore e di genere. Ma questa «Love Story» fra la proprietà e la First Lady della Prima Signora del giornalismo si è frantumata come quel «soffitto di cristallo» che Jill aveva spezzato, anche a nome di altre donne. In meno di dieci giorni fra il 27 aprile e il 6 maggio, di quel vetro sono rimasti i cocci. Ed è stata un’altra donna, Janine Gibson, la direttrice inglese del Guardian edizione americana, a essere involontariamente il detonatore dell’esplosione. La sua scelta come vice direttore per le edizoni e le iniziative online del «Times» aveva esasperato il numero due di Jill, Dan Baquet, che aveva minacciato di andarsene dopo una cena tempestosa con l’azionista nel suo duplex di Park Avenue. Da New York, Janine Gibson, l’altra donna di questo spietato triangolo di ambizioni, è fuggita per tornare a Londra come vice direttore del Guardian.
Nel cespuglio di rovi delle gelosie, delle antipatie, delle divoranti vanità che consumano il mondo dei media, e del perenne stereotipo del «cattivo carattere» delle donne importanti alle quali non si perdonano atteggiamenti invece lodati in un leader maschio, bruciava l’irritazione della Abramson dopo la scoperta di essere retribuita meno del predecessore maschio, Bill Keller. Vero o falso che fosse il gap, che goffamente l’editore nega, l’aumento da 499 mila dollari l’anno ai 525 mila del 2013 più azioni, benefit e altre coccole, deciso dall’amministratore sembrarono segnalare che la proprietà sapeva e aveva cercato di colmare la differenza. E la tanica di benzina sul cespuglio ormai in fiamme dei rapporti fra editore e direttore esplose quando il proprietario venne a sapere che lei aveva assunto un avvocato per fare causa all’azienda. «Jill Abramson è stata sollevata dal suo incarico e la proprietà la ringrazia per la sua blah blah». Al suo posto, certamente per meriti e per coprirsi le spalle da accuse di discriminazione, è salito proprio il commensale lamentoso, l’afroamericano Baquet.
«Ora sono un po’ spaventata, ma anche molto stimolata dal non sapere che cosa farò domani, che futuro avrò, esattamente come voi laureati». Ma una cosa certamente non farà: non si cancellerà dalla schiena i tatuaggi con le iniziali del marito e quelle nei caratteri goticheggianti del giornale che prima ha diretto e poi l’ha scaricata: «Neanche per sogno», perché quel suo ex giornale «resta il forte dal quale si difende la libertà di stampa senza la quale la democrazia non esiste». Non è personaggio da suscitare tenerezze, semmai da incutere timore, come sapevano i suoi redattori e collaboratori sotto quello che il successore e nemico, Dan Baquet definisce in privato «il regno del terrore».
Ma come sempre dietro il suono e il rumore c’è una persona, Jill, l’ex studentessa di Harvard destinata al più entusiasmante dei trionfi e poi alla più amara delle cadute.
Ieri, era soltanto una signora non più giovane, piccolina nella toga voluminosa della laurea honoris causa, segnata, nella voce e nel volto, dal dramma della defenestrazione brutale. «Ieri sera, parlando con alcuni di voi, ho confessato di avere un po’ paura, ma anche di restare fedele, a ogni costo, a questa meravigliosa professione chiamata giornalismo». La signora. Da direttore del massimo quotidiano del mondo a disoccupata che predica a studenti altrettanto disoccupati, la caduta dal grattacielo costruito da Renzo Piano per il New York Times è stata tremenda e improvvisa. Per fortuna ha ancora il ricordo della voce del padre, per rimboccarle le coperte dell’amarezza e augurarle la buonanotte.
Vittorio Zucconi, la Repubblica 20/5/2014