Francesco Grignetti, La Stampa 20/5/2014, 20 maggio 2014
IL GAS DELL’ADRIATICO FA GOLA ALLA CROAZIA. L’ITALIA È IN RITARDO
L’allarme l’ha lanciato Romano Prodi alcuni giorni fa. «Non facciamoci soffiare il petrolio dalla Croazia». In verità non è sicuro che ci sia petrolio sotto il mare, semmai il gas. L’ex presidente del Consiglio ha comunque introdotto un tema delicatissimo alla vigilia del voto: la ricerca dei pregiatissimi idrocarburi. L’Adriatico ne è ricco. Secondo alcune stime si potrebbero ricavare 22 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio e quindi si potrebbe addirittura raddoppiare la produzione nazionale, che oggi, dopo un picco nel 1996, conta sull’estrazione annua di 13 milioni di tonnellate tra gas e petrolio (pari al 10% dei consumi).
Tema delicatissimo, ma anche sensibile. La crisi ucraina e le convulsioni libiche, infatti, hanno rilanciato il problema della nostra dipendenza dalle importazioni di fonti fossili. Ne hanno parlato a lungo i ministri dell’Energia del G7 a Roma un mese fa. Ma siccome non c’è comunità locale che non s’imbizzarisca a sentire che vogliono piazzargli una trivella nel parco più vicino oppure una piattaforma off-shore davanti alla costa, nessuno vuole sporcarsene le mani. Letteralmente. E non ci sono solo tanti movimenti «No triv» sul piede di guerra. Dappertutto si schierano comunità locali, sindaci, Governatori regionali, vescovi, partiti. Il M5S e Sel in particolare cavalcano le proteste.
Con il suo intervento sul “Messaggero”, però, Prodi ha svelato che nel mezzo dell’Adriatico è partita una gara a chi trivella prima. L’Italia infatti sta rinviando ogni decisione e tiene a bagnomaria le richieste di esplorazione. La Croazia, invece, ha già diviso la sua porzione di Adriatico in 29 spicchi e si prepara a farli sfruttare dalle multinazionali petrolifere. Ecco perché Prodi conclude: «Si tratta di giacimenti che si estendono nelle acque territoriali di entrambi i Paesi ma che, se non cambierà la nostra strategia, verranno sfruttati dalla sola Croazia». Già, perché i giacimenti sono lì nel mezzo, ma se poi le sonde succhiano da un lato solo, i benefici (e le royalties) vanno tutte da quella parte. E oltre il danno dei mancati guadagni, l’Italia rischia anche la beffa dei pericoli ambientali perché non è che l’Adriatico sia poi così largo. Si dice d’accordo il presidente del settore Idrocarburi di Assomineraria, Pietro Cavanna: «È un’assurdità non voler utilizzare queste risorse, dando ossigeno a un’industria all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, garantendo la massima sicurezza».
Il governo Renzi ha ben presente il problema. Subito dopo l’insediamento, al ministero dello Sviluppo economico e dell’Ambiente si sono messi al lavoro per recepire finalmente la Direttiva europea che detta parametri tecnici più stringenti sulla ricerca e la coltivazione degli idrocarburi, in terra e in mare. A seguire, ci si ripromette di concedere nuove licenza di ricerca, ma rispettando le nuove regole.
Allo stesso tempo, con le ipotesi di riforma costituzionale del Titolo V, Renzi ha inserito l’energia tra le materie che in futuro non sarebbero più condivise tra Stato e Regioni ma riservate al governo centrale. E quale sia il sentimento prevalente nei ministeri l’ha fatto capire appena quattro giorni fa in Parlamento il sottosegretario all’Ambiente Silvia Velo, Pd, riepilogando la questione di un contestato progetto di esplorazione petrolifera al largo di Chieti, attualmente bloccato dal ministero e sottoposto a Valutazione di impatto ambientale: «Appare quasi superfluo precisare che la valutazione d’impatto ambientale dei progetti presentati non può essere preconcetta e basata esclusivamente sul “sentito” dell’opinione pubblica e sulle pur legittime istanze degli amministratori territoriali locali».
Francesco Grignetti, La Stampa 20/5/2014