Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  maggio 20 Martedì calendario

LIBIA NEL CAOS, DILAGANO LE MILIZIE


La transizione libica, il capitolo più cruento delle primavere arabe segnato dalla fine atroce di Gheddafi, è fallita e la spallata, come nell’Egitto di Abdel Fattah al Sisi, l’ha data un generale, Khalifa Haftar: ma se gli obiettivi sono simili - eliminare gli islamici - è probabile che il generale Haftar nel caos libico sia attore di un gioco più complesso e confuso che non un protagonista assoluto come il suo collega egiziano, ormai quasi presidente. Se si tratta o meno di un colpo di stato - e la chiusura del Parlamento sembra indicarlo - è ancora da vedere ma forse le distinzioni semantiche sono meno significative di quanto accadrà sul terreno.
La realtà è che nel vuoto di potere e nell’assenza di istituzioni affidabili le milizie e le forze paramilitari decidono, di giorno in giorno, l’agenda di un Paese strategico - soprattutto ora dopo la crisi ucraina - per i rifornimenti energetici dell’Italia e la stabilità del Nordafrica.
Ma ancora più significativa è l’assenza dell’Europa e degli Stati Uniti, che insieme alla Francia, alla Gran Bretagna e ai loro alleati arabi hanno abbattuto il regime del Colonnello per poi abbandonare il Paese al suo destino. «L’amministrazione Obama e la Nato portano la responsabilità del caos libico: sono entrati in campo per sbalzare dal potere Gheddafi ma se ne sono andati via subito, senza preoccuparsi della sicurezza e di insediare un nuovo ordine», scriveva nei giorni scorsi il Washington Post, giornale ben informato che forse fiutava il tentativo di imprimere una sterzata a un Paese fuori controllo.
Ogni volta che si presenta l’occasione - è accaduto anche in marzo alla Conferenza di Roma - l’Italia viene indicata come un Paese-guida della Libia futura ma senza avere né l’autorità né i mezzi per ricostruire sulle macerie lasciate da altri. Il premier Renzi e il ministro degli Esteri Mogherini fanno giustamente appello all’Europa e all’Onu ma finora abbiamo faticato a vedere riconosciute le nostre preoccupazioni. Basti pensare alla questione dell’immigrazione clandestina - dalla Libia arriva sulle nostre coste il 90% dei migranti - che Tripoli usa come uno strumento di pressione esattamente come ai tempi di Gheddafi e allo sgretolamento di un’amministrazione che rischia, oltre al fallimento politico, quello finanziario, perché la produzione di petrolio è crollata a meno di 250mila barili al giorno e in pochi mesi Tripoli ha perso 10 miliardi di dollari di entrate: se frana anche lo stato assistenziale, lubrificato dall’oro nero, la Libia va diritta verso l’anarchia. Tra poco, se non stiamo attenti, non resterà neppure la "Libia utile", quella del gas e del petrolio, alla quale si aggrappa l’Eni ma anche gli imprenditori italiani che paradossalmente in questa situazione di incertezza nel 2013 hanno messo a segno il record di esportazioni (quasi 3 miliardi di euro, più 20% sul 2102).
È vero che occuparsi di Libia oggi sembra mettere insieme i pezzi di un puzzle a volte incomprensibile: se è netta è la divisione tra Tripolitania e Cirenaica - dove il generale Haftar è andato all’attacco delle milizie islamiche legate ad al-Qaeda facendo un’ottantina di morti - le formazioni paramilitari censite sono oltre 1.200, consistente inoltre è il ritorno degli ex gheddafiani mentre partiti e deputati "indipendenti" agiscono soprattutto per difendere gli interessi locali e delle bande armate di Misurata o Zintan. Ma questa "somalizzazione" della Libia non giustifica il disinteresse.
Qualche giorno fa il nostro ambasciatore Giuseppe Buccino spiegava con una certa chiarezza lo scontro in atto tra due campi opposti: uno, quello degli anti-islamici, costituito da forze secolariste, liberali e milizie locali come quella di Zintan, l’altro rappresentato dagli islamisti che in Parlamento, attraverso il Partito della Giustizia e della Costruzione, erano riusciti a imporre come nuovo premier Ahmed Maitig, giovane imprenditore laureato in Gran Bretagna e soprattutto nipote di Abdulrahman Swehli, il potente leader di Misurata.
Il generale Haftar si è inserito in questa lotta sfruttando l’azione anti-terrorismo contro le milizie islamiche in Cirenaica dove è custodito il 70% del petrolio libico. Khalifa Haftar, 71 anni, nel ’69 a fianco di Gheddafi nel golpe contro re Idriss, fu comandante durante la guerra del Chad quando venne catturato e scaricato dal Colonnello: fu allora che passò negli Stati Uniti per 20 anni per poi tornare nel 2011 e tentare la scalata nell’esercito regolare dove venne osteggiato dai Fratelli Musulmani. Ha il dente avvelenato contro gli islamici e una spiccata inclinazione golpista, perché già nel febbraio scorso aveva tentato un velleitario "pronunciamento" in stile sudamericano. Ora ci ha riprovato contando su forze fresche, magari con qualche aiuto esterno dei vicini arabi, e puntando sul malcontento del cittadino libico, stritolato tra milizie e partiti che non garantiscono né la sicurezza né un futuro. Il rischio di un confronto sanguinoso è alto - ci mancherebbe sulla Sponda Sud un’altra guerra civile dopo quella siriana - ma potrebbe anche prevalere il compromesso se i due fronti si mettessero d’accordo per convocare elezioni politiche in agosto, dopo il Ramadan, destinate a rinnovare un Parlamento eletto con squilli di fanfare nel luglio 2012 e nei fatti ormai delegittimato. Una transizione fallita non esclude un nuovo inizio.

Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 20/5/2014